- Lukashenko sa quanto il tema migratorio è divisivo all’interno del blocco, e spalancando i propri confini occidentali spera di provocare repressioni talmente forti da isolare gli stati membri confinanti, i più ostili al suo regime, e il resto dell’Ue.
- Reagendo con inerzia Berlino ha effettivamente ceduto il passo alla retorica conflittuale di Varsavia, utile al Pis per guadagnare voti a destra.
- Ignorando il coinvolgimento russo, pur consci che il dialogo con Mosca non avrebbe dato risposte concrete alla crisi bielorussa, Berlino ha provocato proprio quell’aumento delle tensioni che avrebbero voluto impedire.
In questi giorni Berlino è attanagliata da un senso di déjà-vu, e non solo a causa della quarta ondata di infezioni. Il tabloid Bild lancia appelli per la difesa dei confini europei, il ministero dell’Interno valuta la chiusura dei confini, l’immigrazione clandestina è tornata al centro del dibattito politico.
La situazione effettiva è però molto lontana dal caos del 2015. La polizia federale ha registrato 8.833 tentati attraversamenti del confine tedesco-polacco sui fiumi Oder e Neisse. Al centro per la gestione dei migranti del Brandeburgo, il Land lungo cui scorre il confine, la situazione è abbastanza tranquilla. I tristi casermoni dell’agenzia a Eisenhüttenstadt possono ancora ospitare parecchi rifugiati, e la polizia di confine coordina i pattugliamenti con i propri colleghi polacchi senza aver per ora chiuso i confini. L’evento più significativo si è verificato il 20 ottobre, quando una cinquantina di estremisti di destra avevano provato a entrare in Polonia per supportare «la difesa dei confini europei».
Ma i numeri non sono tutto, e il contesto politico è per certi versi estremamente più complesso e pericoloso rispetto a sei anni fa. Questa volta il fenomeno ha un volto: l’ondata migratoria è riconducibile al regime bielorusso di Aleksandr Lukashenko, che ha trasformato Minsk in una tappa dell’immigrazione clandestina diretta verso l’Unione europea. Il regime sa quanto il tema migratorio sia divisivo all’interno del blocco, e spalancando i propri confini occidentali spera di provocare repressioni talmente forti da generare grossi problemi agli stati membri confinanti, i più ostili al suo regime, e il resto dell’Ue.
Per certi versi il piano ha funzionato: la Polonia ha dichiarato lo stato d’emergenza sul proprio confine orientale, imponendo un blackout mediatico e respingendo migliaia di rifugiati al di là del confine, senza considerare nessuna legge europea. Intanto i morti continuano ad aumentare, provocando scalpore in tutto il continente.
Un governo paralizzato
La Germania si trova come paralizzata di fronte alla crisi. L’esecutivo Merkel è ormai ad interim e non vuole pregiudicare le decisioni del futuro governo “semaforo”. Ma la coalizione fra Spd, Liberali e Verdi è ancora in fase di gestazione, e la questione bielorussa si aggiunge alla complessa ricerca di un compromesso fra i partiti. I Verdi sono storicamente molto scettici nei confronti di Frontex, l’agenzia Ue che dovrebbe intervenire in questa crisi ma che la Polonia ha preferito non attivare, mandando invece 12mila soldati al confine. La militarizzazione dello scontro preoccupa molti, ma nessuno a Berlino sembra però intenzionato a condannare Varsavia. Una delegazione di neodeputati Verdi, in visita al confine polacco-bielorusso, si è rifiutata di prendere alcuna posizione politica sulla situazione umanitaria.
Lo stallo politico non è solo una questione partitica, ma anche di approccio. Berlino interpreta la crisi prima di tutto in chiave migratoria, e la risposta istituzionale è in mano al ministero dall’Interno e al gruppo di lavoro migrazione del ministero degli Esteri. Concentrandosi sulla gestione dei flussi migratori, la leadership tedesca è finora riuscita a non introdurre la questione bielorussa nei già pessimi rapporti europei con Mosca, nonostante il supporto del Cremlino sia l’unico elemento che ha preservato il regime di Lukashenko dal crollo.
Questa posizione è però diventata sempre più insostenibile: l’Ue ha accusato la compagnia di bandiera Aeroflot di aiutare i migranti a raggiungere Minsk, mentre il viceambasciatore russo alle Nazioni unite ha confermato che la presenza di due bombardieri nucleari russi nei cieli bielorussi è «una risposta al grande ammassamento di truppe sul confine polacco-bielorusso».
La cosa peggiore è il fatto che con questa inerzia Berlino ha effettivamente ceduto il passo alla retorica conflittuale di Varsavia. Il governo polacco è stato molto esplicito nel definire l’ondata migratoria un’opera del Cremlino, definendola un’«aggressione ibrida».
Secondo il professor Peter Loew, direttore del Deutsches Polen-Instituts, il partito di governo Pis ha un interesse a sposare la retorica marziale. Inscenandosi come gli unici capaci di difendere la Polonia dall’aggressione russa e dai migranti musulmani i conservatori sperano di recuperare voti a destra, distraendo dall’aumento repentino dell’inflazione e delle infezioni. La narrativa securitaria ha però provocato parecchie critiche da parte dell’opposizione e potrebbe essere impopolare se la Polonia dovesse continuare a ignorare le offerte di aiuto da parte degli altri stati membri.
Il dilemma tedesco
Ciò pone Berlino di fronte al dilemma di dover mostrarsi solidali con i polacchi e preservare l’unità europea, senza però entrare nel tunnel di un confronto duro con la Russia. La cautela ancora prevale, ma alcuni rappresentanti del governo – a partire dal portavoce del governo uscente, Steffen Seibert – hanno adottato la chiave di lettura polacca, soprassedendo l’unilateralismo di Varsavia.
Anche il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si è espresso in questi termini, mentre il premier polacco Mateusz Morawieck ha addirittura assicurato che la Polonia avrebbe ricevuto «il totale supporto della Nato».
Un possibile coinvolgimento dell’Alleanza atlantica è visto con estremo scetticismo a Berlino, dove l’Ue è considerato l’unico attore adeguato a reagire alla crisi. È stato forse proprio lo spettro di un’ulteriore militarizzazione della crisi ad aver convinto Angela Merkel a telefonare a Vladimir Putin, che dopo un’iniziale manifestazione di solidarietà con Minsk ha auspicato «una risoluzione dell’acuta crisi migratoria».
La minaccia di Lukashenko di interrompere l’approvvigionamento di gas russo verso l’Europa, di cui circa il 20 per cento transita proprio dalla Bielorussia, potrebbe aver contribuito: Mosca è più che felice di poter mettere sotto pressione l’Ue, ma solo alle proprie condizioni e non affidando le dinamiche dell’escalation a un proprio stato-cliente.
Il costo dell’inerzia
È verosimile che, assieme a nuove sanzioni europee, la Germania possa dare un giro di vite alle aziende tedesche ancora attive in Bielorussia. La People’s Embassy of Belarus, un organismo dell’opposizione, stima che ce ne siano ancora 140. È però difficile che si riesca a uscire dallo stallo: anche se la Russia decidesse di porre fine al traffico del regime di Minsk, l’Europa si trova totalmente incapace nel definire una strategia capace di alterare le dinamiche dello scontro.
Ciò è sotto molti punti di vista una responsabilità di Berlino, che si è lasciata sopraffare dagli eventi. Ignorando il coinvolgimento russo, pur consci che il dialogo con Mosca non avrebbe dato risposte concrete alla crisi bielorussa, i tedeschi hanno provocato proprio quell’aumento delle tensioni che avrebbero voluto impedire.
L’ambiguità ha incoraggiato Lukashenko a mettere il dito nella piaga dei rapporti tedesco-polacchi, già in gravi difficoltà per la questione della rule of law. L’escalation ha a sua volta costretto la Germania a sottoscrivere alla retorica della “guerra ibrida”, accettando una linea conflittuale che ritiene poco utile. Lasciandosi prendere in contropiede Berlino rischia di aver fallito su tutta la linea, dando un assist ai tedescofobi del Pis, rafforzando la percezione di Mosca come ago della bilancia nella crisi bielorussa e aumentando le tensioni politiche in Europa orientale.
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