Fino al 28 luglio la Pelanda del Mattatoio di Roma ospita “Riverberi”, la programmazione artistica di Spazio Griot. Tra gli eventi le videoinstallazioni di tre artiste internazionali che affrontano i temi della bianchezza e della supremazia bianca. In questa pagina tre testi curatoriali
Gli effetti sono il prodotto di un’azione o di una causa, il risultato di un impulso, di un atto, o di una molteplicità. “Causa ed effetto” è il dualismo più comunemente usato per alludere a questa relazione. Tuttavia, l’esito di una determinata causa raramente si manifesta al singolare; è più probabile che ci si trovi di fronte a una pluralità di ramificazioni, un insieme di “effetti”. Il termine “riverbero” racchiude almeno due significati: il primo indica un prolungamento del suono, una risonanza o un risuonare: l’essenza di ciò che ritorna come un’eco quando le onde sonore vengono riflesse verso la sorgente. Il secondo, stando al dizionario Oxford, è «un effetto continuo: una ripercussione».
Questa nozione di effetti continui, o, più precisamente, mappare la loro natura pervasiva, è al centro della mostra e del programma pubblico 2024 di Spazio Griot. Dopo aver esplorato nel 2022 “Sediments”, come allegoria della memoria, e nel 2023 “Rifrazioni”, come metafora della rappresentazione, la programmazione di quest’anno posa lo sguardo sugli effetti continui di varie strutture egemoniche di potere e sulle strategie impiegate per minimizzare e indebolire la loro influenza.
Presentate rispettivamente per la prima volta in Italia, Europa e a Roma, Whiteface, di Candice Breitz (20 giugno-2 luglio), A Plot, A Scandal, di Ligia Lewis (3-16 luglio) e Path to the Stars, di Mónica de Miranda (17-28 luglio), sollecitano discorsi critici sulla razza, sulla supremazia bianca e sulla colonizzazione come lato oscuro del pensiero illuminista, e prospettano una resistenza Nera – e guidata dalle donne – come modalità duratura di futurità.
In un momento in cui numerose forze egemoniche si stanno ricostituendo di fronte alle sfide contemporanee, “Riverberi” le situa nei loro contesti storici e contemporanei; per fare il punto, per rivelare come gli effetti continui di queste forze lacerino le società di tutto il mondo e come la resistenza sia perennemente re-immaginata di fronte a esse. Qual è lo stato della struttura di potere? L’entità dell’illusione? Il grado di decadenza?
Candice Breitz, Whiteface
A Febbraio 2024, in un articolo del Guardian sui principali film candidati ai premi cinematografici dell’anno, Ellen Jones si domandava: «Dove sono tutti i film sulla bianchezza?». Sullo schermo, i bianchi sono rappresentati come semplici esseri umani, senza che sia necessario l’appellativo “bianco”. Per Jones, la bianchezza essenzialmente è la libertà di non vedere la razza, anche quando è proprio davanti a noi. Whiteface (2022), di Candice Breitz, è un’opera che si confronta direttamente con la carenza di film sulla bianchezza, è tutto incentrato sulla bianchezza: le sue articolazioni, i suoi tic, le sue manifestazioni e le sue contraddizioni.
È una parodia della bianchezza realizzata con filmati trovati su Internet. Attraverso la messa in scena di diversi personaggi che indossano varie parrucche bionde, Breitz incarna l’essenza insidiosa della bianchezza, interpretando il ruolo di un protagonista subdolamente fragile, sempre sull’orlo di un crollo totale a causa dell’ingiustizia percepita di essere riconosciuto come un agente della bianchezza. Le voci che Breitz personifica con profuso black humor, rendono evidente la strategia di individualizzare e poi armare il privilegio bianco per ottenere vantaggi, opportunità̀ e potere immeritati.
I personaggi di Breitz aderiscono in modo eccessivo all’ideologia e alla supremazia bianca e utilizzano una serie di argomentazioni semplicistiche per legittimare e giustificare comportamenti che normalizzano e sostengono la bianchezza nella sfera pubblica. Il fatto che tutto il materiale utilizzato da Breitz sia disponibile online rivela la scala algoritmica della macchina della bianchezza, l’implacabilità̀ con cui cerca di normalizzarsi. Sparsi tra tutti gli altri contenuti nei social media, radio e tv, questi commenti vengono facilmente liquidati come trascurabili opinioni problematiche. Eppure la loro concentrazione in Whiteface è pura violenza per alcuni e un brusco risveglio per i potenziali agenti della bianchezza, che per la prima volta si confrontano con la sua essenza fittizia.
Ligia Lewis, A Plot, A Scandal
In A Plot, A Scandal (2023), Ligia Lewis intreccia una serie di eventi storici per sfidare il mito della democrazia razziale. L’artista rivisita la storia di Hispaniola e la sua relazione con l’Europa, delineando la nozione di plot secondo i suoi diversi significati: un complotto, un pezzo di terra e l’essenza di una storia nel contesto dello scandalo della schiavitù transatlantica.
Il film si apre con Lewis e il performer Corey Scott-Gilbert mentre vagano per le strade acciottolate di Santarcangelo. Nella scena successiva sono all’interno di una stanza dalle tonalità seppia. Di nuovo all’esterno, vestite con parrucche e abiti barocchi, saltano tra file di cipressi. Il loro piacere è mediato dalla voce fuori campo di John Locke che introduce i “diritti naturali” alla vita, alla libertà e alla proprietà ed estratti del Code Noir, il decreto di Luigi XIV del 1685, che fino al 1789 definì gli africani schiavizzati nelle colonie francesi come “proprietà”, evidenziando la violenza dell’astrazione legalizzata.
Oltre a mettere in luce l’indicibile brutalità della schiavitù e dell’alienazione delle terre, A Plot, A Scandal mostra come le idee inscritte nella legge abbiano cancellato le epistemologie locali. Il lavoro trae spunto dalla ricerca di Lewis sulle rivolte più piccole ed eterogenee guidate da diverse figure, come José Aponte, o dalla sua stessa bisnonna, Lolón Zapata, che di notte ospitava segretamente incontri di Palo nel suo appezzamento di terra. In reazione alla repressione anti-Nera, Zapata si dedicò a rituali alternativi di comunità, resistenza e solidarietà.
Mónica de Miranda, Path To The Stars
Carlota, un’infermiera morta combattendo per il Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA), è sia protagonista che leggenda nel film Path to the Stars, di Mónica de Miranda. Nel film, della durata di 34 minuti, viene presentata come una bambina, una ragazza e una donna più anziana, a simboleggiare generazioni di resistenza guidata da donne, che può essere fatta risalire alla regina Njinga di Ndongo e Matamba, XVII secolo.
Il viaggio nel tempo di Carlota in Path To The Stars è caratterizzato da un misticismo metodologico. Si narra che nel 1843 l’omonima di Carlota Lucumí abbia guidato una rivolta di persone schiavizzate nello zuccherificio di “Triumvirato”, nella provincia di Matanzas, a Cuba. Il governo di Cuba, alleato chiave dell’MPLA, nel novembre del 1975 inviò delle truppe in Angola per sostenere il gruppo di orientamento comunista nel respingere l’avanzata delle Forze di Difesa Sudafricane (SADF), dell’UNITA e del Fronte di Liberazione Nazionale dell’Angola (FNLA), tra gli altri. Il governo di Cuba assegnò al progetto il nome in codice “Operazione Carlota”.
Oltre al viaggio nel tempo e all’eredità di non una ma due nobili soldate di nome Carlota, il film mette al centro anche i corsi d’acqua, testimoni poetici e fonti senza tempo. Tuttavia il loro ruolo è ambivalente: nel XVII secolo i portoghesi risalirono il fiume Kwanza per raggiungere i territori della regina Njinga.
Il ritornello della voce narrante «Il mio cammino è caos, il mio grande amore disordine», sembra una sintesi appropriata dell’agentività del fiume che attraversa la terra. In questo modo, Carlota e il fiume formano un doppio atto, che gioca ruoli diversi nel corso di una lunga storia di lotta armata e di ricerca di autodeterminazione. Il film di de Miranda è un commento poetico sul coinvolgimento di Carlota in una guerra che è durata dal 1975 al 2002.
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