Il dietrofront su bonus e quote è una boccata d’aria per il sistema pensionistico, ma per renderlo davvero sostenibile occorre stimolare la crescita
La scelta del Governo di confermare lo status quo sulle pensioni e, anzi, di irrigidire ulteriormente il sistema, può sicuramente essere criticata per la sua incoerenza, ma bisogna ammettere che fa tirare un sospiro di sollievo: per la prima volta dopo molto tempo, non saremo in balia di opzioni alternative per il pensionamento, che privilegiano pochissimi lavoratori e costano molti soldi a tutti i contribuenti.
Secondo le ultime indiscrezioni, infatti, il governo intende applicare l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, che era rimasto bloccato finora. Sia chiaro, non si tratta di un’illuminazione o di una scelta etica: il governo si è semplicemente limitato a prendere atto della realtà. Lo spazio per uscite anticipate dal lavoro, infatti, si è ristretto sempre di più negli ultimi anni e probabilmente Quota 100 resterà l’ultima vera grande eccezione alla Riforma Fornero, con un costo stimato di oltre 40 miliardi per le casse pubbliche nei primi dieci anni di implementazione. Meloni ha fatto la scelta giusta, preferendo risparmiare cifre anche relativamente piccole (Quota 102 e 103 sono costate qualche centinaio di milioni), rinunciando a offrire privilegi a una fetta veramente ristretta di lavoratori per fini elettorali, come hanno fatto Quota 102 e 103, con quest’ultima di cui appare peraltro a questo punto possibile anche la conferma per il prossimo anno.
Il problema della scelta “responsabile” del governo è che per risparmiare qualche soldo nel breve periodo si chiudono le porte a quello che dovrebbe essere il contraltare dell’attuale sistema pensionistico: si riceve meno, ma, in teoria, si dovrebbe poter andare in pensione più o meno quando si vuole. Con il sistema contributivo, infatti, l’assegno pensionistico è parametrato al numero di contributi versati, in base a quella che è l’aspettativa di vita residua. Semplificando: se si sono accumulati contributi per 40 euro e si stima che si vivrà ancora 40 anni, si riceverà un assegno di un euro ogni anno. Se si decide di andare in pensione vent’anni dopo, l’assegno sarà doppio (per semplificazione non consideriamo l’evoluzione del montante contributivo, che viene investito nel periodo in cui si è al lavoro, né forme più complicate di attualizzazione).
Fino a quest’anno, questa flessibilità era garantita soprattutto alle donne, peraltro con limitazioni non indifferenti: con Opzione Donna, è possibile andare in pensione con almeno 59 anni di età e 35 di contributi versati, a patto che tutta la pensione venga ricalcolata con il sistema contributivo. A parte le limitazioni forse eccessive, è un meccanismo equo: perché dovrei lavorare più a lungo se sono disposto ad accontentarmi di una pensione più bassa? Si era parlato della possibilità di estendere quest’opzione a tutti, ma adesso il governo sembra intenzionato ad abolirla del tutto. Nonostante sia una misura perfettamente bilanciata e non abbia un costo per lo Stato nel suo insieme, infatti, l’uscita anticipata dal lavoro prevede maggiori spese nell’immediato (ma un risparmio che le compensa nel medio lungo termine a causa dell’aumento più basso).
I conti dell’Inps
Anche dopo le ultime correzioni di rotta il nostro sistema previdenziale resta comunque insostenibile. Già oggi, la spesa pensionistica italiana è tra le più alte al mondo: ha già superato il 15 per cento del Pil e arriverà vicina al 18 nel 2040, mentre in Germania passerà dal 10 al 12 per cento del Pil e in Spagna e Francia rimarrà fissa intorno al 12 e 15 per cento rispettivamente. Il motivo è l’ancora altissimo numero di pensioni calcolate con il metodo retributivo, che peseranno sui conti dell’Inps per decenni.
L’insostenibilità del sistema non è un rischio che stiamo provando a evitare, ma un problema con cui dobbiamo già convivere: all’inizio dell’anno, l’Inps prevedeva di chiudere il 2023 con una perdita di 10 miliardi, che dovranno essere coperti con la fiscalità generale. Oltre a pagare una quota consistente della propria retribuzione in contributi, quindi, già oggi i lavoratori devono coprire parte della spesa pensionistica anche con le tasse.
La spesa pensionistica è destinata ad aumentare ancora. Le radici del problema, però, non stanno solo nella denatalità e nell’invecchiamento della popolazione, ma soprattutto nella debolezza dei fondamentali economici. Nel calcolare l’evoluzione della spesa pensionistica all’interno della Nadef, il Governo considera da qui al 2070 una crescita media annua dello 0,8 per cento (sostanziale stagnazione) e un aumento del tasso di occupazione di 6,8 punti percentuali, che non ci permetterebbe di chiudere nemmeno il gap che esiste oggi tra l’Italia (60,1 per cento) e la media Ue (69.8 per cento).
Senza implementare riforme e politiche che possano cambiare davvero prospettive economiche così deludenti, non c’è sistema pensionistico che tenga.
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