- Federmeccanica e i sindacati Fiom Fim e Uilm hanno firmato il primo documento congiunto della storia per chiedere al premier Mario Draghi si occuparsi del futuro dell’industria dell’auto. E di farlo in fretta.
- Con la fine della vendita di veicoli a motore endotermico al 2035 si rischia la perdita di 73mila posti di lavoro, di cui 63mila già nel periodo 2025-2030. Ma poi c’è un problema di futuro, di come reimpostare la produzione, già in fortissimo calo.
- Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza non c’è neanche una riga sulla transizione dell’automotive. Non è una mancanza da poco.
È solo di fronte a un grave allarme, un allarme di sistema, che si vedono inedite cordate. Federmeccanica e i sindacati delle tute blu si sono scontrati per decenni, anche violentemente nelle piazze. Ieri per la prima volta si sono visti a braccetto, a parlare con un’unica lingua, seduti accanto dalla stessa parte del tavolo nella sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale, davanti a una piazza Montecitorio blindata per le sfilate dei corazzieri del presidente Sergio Mattarella, per presentare il primo documento congiunto della storia delle relazioni industriali in Italia.
Tema: la drammatica situazione del settore dell’automotive. L’inaudito patto dei produttori, tanto auspicato dal presidente del Consiglio Mario Draghi, si è effettivamente concretizzato e chiede proprio a lui, al primo ministro, l’apertura urgente di un tavolo di ascolto e di confronto per un piano industriale «che al momento non si vede».
Fiom Fim e Uilm ed evidentemente anche la controparte, come ha detto la segretaria generale Francesca Re David, non credono si possa andare avanti a «prendere il problema partendo dalla coda, cioè dalle singole crisi aziendali».
Il documento congiunto denominato Una prospettiva economica condivisa, elaborato dall’osservatorio nato sulla scia della sigla dell’ultimo contratto collettivo di lavoro in piena pandemia, traccia le somme della crisi del comparto, che rappresenta il 5,6 per cento del Pil italiano con 5.700 imprese e oltre 250mila occupati pari al sette per cento dell’intera forza lavoro nazionale.
Dice in sostanza che il settore dell’auto rischia di diventare una ex eccellenza italiana, dopo essere già scivolato dal secondo all’ottavo posto a livello mondiale, spazzato via dai ritardi nell’adeguarsi alla transizione ecologica e digitale e dalla concorrenza internazionale, non solo extraeuropea, ma anche di paesi come Francia e Germania.
Ora il colpo di grazia potrebbe arrivare dal piano globale della multinazionale Stellantis, atteso per il primo marzo, dopo che gran parte della filiera produttiva italiana nei decenni si è modellata a uso e consumo della vecchia Fiat.
La crisi in numeri
L’allarme è prima di tutto occupazionale. Con la fine della vendita di veicoli a motore endotermico al 2035 si rischia la perdita di 73mila posti di lavoro, di cui 63mila già nel periodo 2025-2030. Ma poi c’è un problema di futuro, di come reimpostare la produzione, già in fortissimo calo: del milione e 800mila veicoli del ’97 si è passati l’anno scorso a solo 700mila di cui 500mila auto.
Non è con un rinvio di qualche anno del “timeout” della strategia europea “Fit for 55” che si inverte la tendenza. Non è più tanto una scelta se puntare sull’auto elettrica o sul diesel, come ai tempi di Sergio Marchionne. Ma le parti sociali, come ha spiegato il presidente di Federmeccanica Federico Visentin, non sono in polemica con il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, che ha promesso due giorni fa in un incontro con Confindustria e Anfia di recuperare, insieme al collega del Mef Daniele Franco, un «sistema di incentivi per il settore in crisi anche a causa della transizione».
«Il problema non è soltanto quello di incentivare la domanda ma di lavorare sull’offerta», cioè sul cosa produrre, ha infatti spiegato Visentin. E «serve fare squadra».
La lacuna del Pnrr
Non si tratta neanche solo di chiedere solo più soldi allo stato, sia sotto forma di ammortizzatori sociali speciali e di un fondo unico per la formazione e la riqualificazione delle maestranze o l’impegno di Cassa depositi e prestiti per favorire gli investimenti in ricerca e sviluppo di un tessuto industriale fatto all’80 per cento di piccole e medie aziende.
«Va ripensato tutto il sistema della mobilità, anche sul piano urbanistico», spiega a Domani il vice presidente di Federmeccanica Corrado La Forgia, il quale vede un futuro in cui l’auto sarà sempre meno un bene proprietario e sempre più un sistema di servizi basato sui Big data e su nodi di interconnessione. «Soldi ne serviranno tantissimi e non basteranno certo quelli dello stato, ciò che serve è capire nel mondo e nel mercato che verranno cosa avrà l’Italia da offrire come unicum su cui specializzarsi», insiste. Lui ripone la sua fiducia nella «creatività che gli italiani hanno sempre avuto», più che su una visione politica dello sviluppo.
Sta di fatto che nel Pnrr sulla transizione dell’automotive non c’è neanche una riga. E non è una mancanza da poco.
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