C’è l’ops di piazza Gae Aulenti sulla banca di piazza Meda e quella di Mps ai danni di Nagel. Sullo sfondo la lotta per la conquista del Leone, con l’alleanza tra Delfin e Caltagirone. È una lingua oscura e bellicosa quella delle scalate bancarie iniziate alla fine del 2024 e che vedono giocare i manager delle banche italiane, pronti a disporre le truppe per conquistare (o, più prosaicamente, comprare) i loro competitor. Tra azzardi, voti e veti destinati a durare almeno altri tre mesi.

La lunga serie di offerte non concordate di acquisto e scambio riguarda, a parte Intesa Sanpaolo, i maggiori gruppi finanziari del paese, da Unicredit e Banco Bpm fino a Mps e Mediobanca. Mai in Italia si era visto un simile attivismo in un arco di tempo così breve. Si tratta di operazioni che riguardano entità la cui capitalizzazione supera i 175 miliardi di euro e che potrebbero portare alla nascita di tre nuovi poli bancari.

Le banche cercano di consolidarsi per conquistare quote di mercato che consentano di ottenere economie di scala ed economie di scopo, cioè di diventare abbastanza grandi da ridurre i costi in proporzione al giro d’affari e di dare ai clienti un’offerta di prodotti più vasta. Ma in questo contesto un ruolo lo giocano anche il taglio dei tassi di interesse avviato dalla Bce, che riduce i profitti degli istituti spingendoli ad aggregarsi, e l’incertezza sui mercati legata ai dazi, possibili ostacoli alle acquisizioni.

I progetti di Unicredit

A dare il via a questo gioco dell’opa è stata, lo scorso novembre, l’offerta pubblica di acquisto di Banco Bpm su Anima, importante società di gestione del risparmio. Un settore molto ambito visti gli enormi margini di crescita: rafforzare la presa sull’asset management può contribuire ad assicurarsi profitti nei prossimi anni. La mossa di Banco Bpm, che ha sede in piazza Meda a Milano e di cui è ad Giuseppe Castagna, si è conclusa il 4 aprile, con il Banco che ha raggiunto l’89,9 per cento del capitale della sgr.

Poi è arrivato il turno dell’ops di Unicredit su Banco Bpm: l’offerta pubblica di scambio, che prevede lo scambio di titoli anziché il pagamento in denaro, tra la seconda e la quarta banca italiana per capitalizzazione. Per Unicredit, che ha sede in piazza Gae Aulenti e di cui è ad Andrea Orcel (presidente è Pier Carlo Padoan, già ministro dell’Economia con Renzi e Gentiloni), l’unione con la realtà guidata da Castagna porterebbe a contare 19 milioni di clienti e 4.763 filiali distribuite in tutta Italia.

L’operazione è stata criticata dal governo, con il vicepremier Matteo Salvini che in Unicredit vede «la minaccia di una banca straniera», dato che solo l’8 per cento delle azioni appartiene a investitori italiani. In realtà l’istituto guidato da Orcel è quotato a piazza Affari e gran parte delle sue attività avviene sul territorio italiano. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva invece ventilato il ricorso al golden power, cioè la possibilità di bloccare vendite e acquisizioni in nome della sicurezza nazionale: un’ipotesi che ora si dà per tramontata, con il via libera di palazzo Chigi atteso a giorni.

Il progetto di Unicredit sull’ex Popolare di Milano ha una data di inizio, il 28 aprile, e una di fine, il 23 giugno. Ma l’acquisizione non è per nulla scontata. Come contropartita per l’appoggio alla scalata, Orcel dovrà fare delle concessioni ai francesi di Crédit Agricole, molto presenti in Italia e che detengono quasi il 20 per cento del Banco. Tra le richieste avanzate dall’istituto transalpino ci sarebbe un pacchetto di 500-600 sportelli che quindi finirebbero in mani francesi.

All’attacco di Mediobanca

A gennaio Monte dei Paschi di Siena ha poi lanciato un’ops su Mediobanca, la banca d’affari (che quindi non si rivolge alla clientela consumer) fondata da Enrico Cuccia. L’operazione varrebbe circa 13,2 miliardi di euro. Mps è la più antica banca al mondo ancora attiva, fino a pochi anni fa vicina al fallimento e poi risorta con la cura dell’ad Luigi Lovaglio. L’offerta di Mps è stata bollata come ostile da Alberto Nagel, numero uno di Mediobanca, che la considera «negativa per gli azionisti».

A complicare il quadro sono le partecipazioni incrociate presenti nella proprietà dei due istituti, come quelle delle famiglie Del Vecchio e Caltagirone, azionisti sia dello scalato che dello scalatore. Del resto Delfin – la holding degli eredi di Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica – e il gruppo Caltagirone – che fa capo a Francesco Gaetano Caltagirone, re dei costruttori romani ed editore del Messaggero – hanno partecipazioni diverse in tutti gli attori coinvolti nella partita.

L’aumento di capitale per l’acquisizione è stato votato dall’assemblea del Monte che si è tenuta il 17 aprile. Lovaglio ha potuto contare su una larga maggioranza – ha detto sì l’86 per cento dei soci – oltre che sull’appoggio del governo, che ha sponsorizzato la scalata da parte di Mps (di cui il Mef è primo azionista) per facilitare la nascita di un terzo polo, cioè un gruppo capace di competere con Intesa e Unicredit, che per Giorgia Meloni sono corpi estranei.

Sfida a due per Generali

Mediobanca è così ambita perché, con il 13,1 per cento, è la prima azionista di Assicurazioni Generali, considerato il perno dell’equilibrio finanziario italiano e arbitro del destino di molti risparmiatori: controllare piazzetta Cuccia significa avere un ruolo chiave nel “Leone di Trieste”, di cui è ad Philippe Donnet e presidente Andrea Sironi. Ciò è tanto più vero se due azionisti di Mps sono anche soci di Mediobanca e di Generali: Delfin detiene il 9,8 per cento a Siena, il 19,8 a Milano e il 9,9 a Trieste, mentre Caltagirone rispettivamente il 9,9, il 7,6 e il 6,9 per cento.

In Generali la resa dei conti arriverà il 24 aprile, con l’assemblea per il rinnovo del consiglio di amministrazione. Molto ruoterà attorno alle mosse di Unicredit, vero ago della bilancia dopo che nei primi mesi dell’anno ha superato il 5 per cento nell’azionariato del Leone. Il voto di Orcel sarà decisivo nella lotta tra la lista del duo Del Vecchio-Caltagirone e quella del cda uscente, stilata da Mediobanca, con Assogestioni (l’associazione delle società di gestione del risparmio) che si presenta come terzo incomodo.

Unicredit sceglierà la via della stabilità oppure del cambiamento? Se approverà la riconferma di Sironi e Donnet contribuirà al consolidamento di una finanza di sistema, aperta al mercato e alle operazioni internazionali. Se invece opterà per il gruppo concorrente favorirà la svolta di Delfin e Caltagirone, spingendo altri attori a sostenere l’ops su piazzetta Cuccia. Una mossa di questo tipo, da parte di Orcel, sarebbe anche interpretata come un segnale di pace verso il governo.

Ma alla logica del riassetto non sfugge neanche, in posizione più laterale, l’ops di Bper Banca sulla Popolare di Sondrio, considerata ostile dall’istituto valtellinese. Qui il vero protagonista è il gruppo Unipol, legato alle cooperative del centro-nord e guidato da Carlo Cimbri, azionista di maggioranza sia in Bper che a Sondrio. Per Unipol l’obiettivo è contenere il distacco dal trio di testa e poter formare un quarto polo. L’aumento di capitale per l’offerta su Sondrio è in programma il 18 aprile.

L’incognita dei dazi

Nella partita delle scalate bancarie pesa però l’incertezza sulla tenuta dell’economia dopo i dazi imposti da Donald Trump. A inizio aprile il settore ha bruciato 38 miliardi di capitalizzazione in due giorni, con tutti i titoli in rosso, e il timore degli investitori è che le tariffe e la risposta cinese possano frenare la crescita. O anche creare pressioni recessive. Con la sospensione dei dazi per 90 giorni, decisa dal tycoon il 9 aprile, le Borse europee hanno recuperato terreno e l’emergenza sembra superata. L’impatto sulle ops è insomma limitato, anche se la volatilità non favorisce questo tipo di scalate.

Certo è che un calo prolungato dei titoli bancari avrebbe potuto (e in futuro potrebbe) sparigliare le carte. Se i titoli di offerenti e target si muovono in negativo senza grandi differenze, tutti ci perdono e l’effetto sulle ops può essere nullo. Ma se i ribassi si trascinano per più giorni possono scattare le clausole Mac, che congelano le operazioni in caso di «significativi mutamenti nella situazione politica ed economica». Un’ipotesi che oggi rappresenta solo lo scenario peggiore, ma con Trump alla Casa Bianca niente è sicuro. Ormai a regnare è l’incertezza, così poco amata da Trieste in giù.

© Riproduzione riservata