- L’attuale struttura del mercato della pubblicità digitale rende il duopolio Google-Facebook un partner commerciale inevitabile per ogni pezzo della filiera del consumo di contenuti, creando un tipico “collo di bottiglia”.
- L’industria dei media rimane l’unica forza potenzialmente in grado di mitigare questo duopolio.
- Ma i media tradizionali sembrano essere più interessati a collaborare, più che a competere, con Big Tech.
Il settore pubblicitario digitale ha una traiettoria di crescita notevole, sia in termini di espansione sia di progresso tecnologico.
La possibilità di essere intermediari onnipotenti e onnipresenti nella vita digitale degli utenti consente a una manciata di colossi di occupare una posizione di mercato privilegiata, migliorando continuamente l’esperienza attraverso gli algoritmi.
Tra gli attori nel mercato della pubblicità nel Regno Unito, Facebook ha generato oltre il 50 per cento del suo fatturato. Google genera oltre il 90 per cento dei profitti nel settore.
L’intera filiera è dominata dal duopolio in espansione di Facebook e Google. Questo dominio non riguarda solo la portata della loro presenza sul mercato, né le cifre stupefacenti dei loro ricavi e profitti.
Un fattore importante in questa radicale metamorfosi del settore della pubblicità online è la riconfigurazione dell’intero “processo di produzione”: il percorso dall’inserzionista al consumatore è diventato tecnologicamente molto più avanzato.
L’intero processo di profilazione è sostenuto da solide tecniche di abbinamento algoritmico. Questo fa sì che possano avvenire automaticamente una miriade di singole transazioni in pochi millisecondi e, nonostante alcune rivelazioni e accuse piuttosto sorprendenti di collusione orizzontale e sfruttamento verticale, il sistema è molto più conveniente rispetto alla pubblicità tradizionale.
Il micro-targeting e la profilazione dei consumatori consentono una corrispondenza molto efficace tra inserzionisti, editori e utenti finali.
Tecnologia e mercato
Alla solidità tecnologica del modello si accompagnano le caratteristiche oggettive dei mercati digitali, che godono di un “effetto network” e hanno una struttura oligopolistica.
Fino a poco tempo fa si sono sviluppati senza alcuna regolamentazione. Negli ambienti antitrust questa è ormai una storia nota.
Un effetto molto meno discusso della situazione appena descritta riguarda la marginalizzazione di tutti i potenziali concorrenti orizzontali in questa nuova filiera: ideatori di contenuti, agenzie pubblicitarie tradizionali e distributori di contenuti stanno diventando completamente staccati gli uni dagli altri e anche dagli utenti finali.
In sintesi, l’attuale struttura della pubblicità digitale rende almeno un membro del duopolio un partner inevitabile per tutti gli altri partecipanti alla filiera, creando un collo di bottiglia.
Naturalmente, i tradizionali attori del mercato rimangono importanti e innovativi secondo le loro modalità specifiche, dato che il passaggio dall’era della pubblicità offline a quella guidata dagli algoritmi è ancora in corso.
Ci sarà sempre vita su Internet al di là del duopolio Google-Facebook, e dunque ci saranno sempre televisione, radio, stampa, servizi postali, product placement e una miriade di altri formati pubblicitari. Non è un gioco a somma zero, ma il passaggio alla pubblicità algoritmica è evidente.
I media tradizionali e i canali pubblicitari non hanno sfruttato la loro posizione e così hanno perso la straordinaria opportunità di sviluppare servizi pubblicitari globali a un livello paragonabile a quello offerto da Google e Facebook.
I semplici miglioramenti quantitativi e il perfezionamento delle tecniche di pubblicità online non sono stati sufficienti per resistere alla rivoluzione qualitativa della profilazione, dell’individualizzazione e dell’abbinamento algoritmico dei big data.
In questo contesto l’industria dei media rimane ancora l’unica forza di mercato significativa potenzialmente in grado di limitare la nuova tendenza e introdurre una certa diversità nell’ambito della pubblicità digitale.
Cambiare gli attori
Il mondo della pubblicità sui media è vario. Il modello offline pre digitale era guidato da chi crea e distribuisce contenuti, ma anche da chi aveva maturato una certa esperienza di marketing ed è stato in grado di mettere gli inserzionisti in contatto con gli editori.
In quell’era primordiale della pubblicità digitale, i principali attori erano gli editori (che avevano una capacità unica di arrivare agli utenti finali) e le aziende pubblicitarie (che avevano una capacità unica di accedere agli inserzionisti).
Dagli anni Novanta fino ai primi anni Dieci di questo secolo questi operatori consolidati hanno avuto l’opportunità di convertire la loro esperienza dal mondo offline a quello online.
Evidentemente non l’hanno sfruttata. In larga misura il contenuto online dei media tradizionali è stato copiato e incollato dai loro principali operatori offline. Allo stesso modo, le loro tecniche di pubblicità digitale rispecchiavano gli approcci e i formati degli operatori tradizionali.
Questo approccio meccanico non era in grado di rispondere alle crescenti aspettative e opportunità della rivoluzione digitale. La rivoluzione l’hanno fatta altri: le grandi piattaforme digitali.
Il cambio di paradigma nel settore della pubblicità digitale è stato innescato dalla crescita dell’abbinamento algoritmico e delle aste. I Big Media hanno perso lo slancio negli anni Duemila, nel momento in cui le principali tecniche di pubblicità algoritmica hanno iniziato a svilupparsi e perfezionarsi.
Da quel periodo è iniziato il calo dei ricavi pubblicitari online dei media tradizionali. Durante gli anni Dieci, caratterizzati dalla crescita della corrispondenza algoritmica, della profilazione dell’utente finale, della pubblicità mirata e dell’intermediazione di big data, l’intero settore della pubblicità online è stato rimodellato.
In un’ottica darwiniana, i media pre algoritmici e le industrie pubblicitarie hanno fallito, perché non hanno saputo cogliere le opportunità che emergevano. La maggior parte delle risorse e delle competenze nella filiera pubblicitaria è stata trasferita al duopolio tecnologico.
Questo non vuol dire che tutti i pesi massimi della pubblicità tradizionale e tutti i media consolidati stiano perdendo il loro dinamismo e lo spirito innovativo. Sulla carta, molti sono stati in grado di mantenere la loro influenza e le entrate. Ognuno però rimane nella propria nicchia di mercato.
Nessuno ha dimostrato crescita e capacità d’innovazione paragonabili a quelle di cui gode il duopolio e nessuno ha sfruttato lo slancio per guadagnarsi un ruolo di primo piano nel settore dei servizi di intermediazione pubblicitaria digitale, elemento decisivo nell’architettura dei mercati.
Inoltre, questi operatori pubblicitari tradizionali sembrano avere perso interesse e capacità di aggredire l’ambito della tecnologia degli ads, che è cresciuta esponenzialmente.
Cooperazione verticale
L’ultimo rompicapo riguarda le sinergie e complementarità tra i giganti della pubblicità digitale, da un lato, e il settore dei media, dall’altro.
Sconfitta completamente nella corsa strategica orizzontale, l’industria dei media sta manifestando il suo interesse a collaborare verticalmente con Big Tech, subordinando la sua indipendenza commerciale al tentativo vano di indovinare le preferenze degli algoritmi del duopolio, convertendo i suoi contenuti in articoli istantanei, cosa che distrugge la capacità di comunicare direttamente con gli inserzionisti e con gli utenti finali.
Anche gli esempi più emblematici della resistenza dei Big Media all’onnipotenza del duopolio – come l’accordo di partnership tra News Corp e Facebook o tra Afp e Google – si limitano principalmente a casi in cui si assicura una (piccola) frazione di compartecipazione alle entrate, nel forma di diritti per l’utilizzo di contenuti protetti da copyright.
Per quanto siano attraenti dal punto di vista della rivendicazione pubblica o di ristretti interessi commerciali, questi accordi non fanno altro che congelare lo status quo, confermando gli interessi dei Big Media a ricevere un compenso dall’assetto pubblicitario vigente piuttosto che a costruire la propria infrastruttura pubblicitaria competitiva.
Questi casi paradigmatici confermano che il il duopolio è il gestore esclusivo di questo ambito: loro fanno i soldi, noi riceviamo una giusta quota. È uno dei sintomi della deindustrializzazione.
La cosa problematica di questa situazione è che è difficile resistere al modello di partnership con le piattaforme di Big Tech.
Oltre a consentire molti vantaggi e sinergie in vari mercati, potrebbe anche essere visto, in un certo senso pickwickiano, come uno sviluppo favorevole alla competizione, perché consente a inserzionisti di piccole e medie dimensioni di trovare le loro nicchie di mercato.
Tuttavia, la subordinazione verticale dei media ai dominatori della pubblicità digitale comporterebbe la fine della competizione orizzontale tra i media e il duopolio.
La strategia normativa emergente, più attenta alla privacy e accompagnata dall’aumento di varie pratiche commerciali da parte degli incaricati dei dati di vietare i cookie di terze parti, rischia di ridurre le opportunità d'ingresso nel mercato della pubblicità.
Ciò impedirà a Big Media di sviluppare canali pubblicitari alternativi basati sulla profilazione e sull’intermediazione, lasciando i frutti dei meccanismi tossici ma potenti della pubblicità digitale agli attuali gatekeeper attraverso la formula “usa e poi impedisci l’uso per gli altri”.
La domanda è se questa tendenza sia reversibile. I media e le aziende pubblicitarie tradizionali saranno mai in grado di assumere un ruolo attivo nel campo della pubblicità algoritmica?
C’è ancora una qualche competenza residua che sarebbe sufficiente per andare oltre gli interessi commerciali locali di uno specifico media e operatore pubblicitario, consentendo almeno ad alcuni di loro di espandersi e sfidare il dominio tecnologico dei giganti?
Proteggere la concorrenza
Una soluzione a questa sfida sistemica può essere trovata nelle leggi emergenti sulla concorrenza digitale, in particolare nelle recenti proposte legislative di Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti.
Altre giurisdizioni seguiranno sicuramente questa tendenza. Un approccio che combina le regole e le tecniche del tradizionale antitrust a valle con una regolamentazione settoriale a monte sta emergendo contemporaneamente in diversi ambiti antitrust.
Un cambiamento normativo così notevole è comprensibile e inevitabile: il mondo sta rapidamente passando dal periodo di ottimismo intorno a Internet, che è cominciato alla vigilia della digitalizzazione e percepiva la rete come l’apoteosi della libertà e del liberalismo, verso una modalità normativa più pragmatica e interventista.
L’approccio non interventista e permissivo a Big Tech che ha caratterizzato la precedente era di ottimismo, accompagnato com’era da una rigida regolamentazione dei media tradizionali, aiuta a spiegare la situazione attuale. Questa nuova era di governance di Internet intende riparare i danni di quella precedente.
La tendenza emergente della regolamentazione a monte implica che le attuali regole di concorrenza da sole non bastano a tutelare e modellare lo sviluppo del processo competitivo nella pubblicità digitale.
Le norme esistenti di solito penalizzano una condotta anticoncorrenziale specifica invece che correggere la tendenza generale; sono poi solitamente caratterizzate da procedure lente e (eccessivamente) complesse.
Dare forma a mercati pubblicitari digitali ben funzionanti, contestabili, equi e sani deve essere fatto attraverso visioni normative attive, non solo protettive. La nuova realtà digitale richiede una nuova mentalità normativa.
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