Un’esplosione di volatilità ha colpito i mercati finanziari nel mondo, con forti perdite in parte annullate da successivi rimbalzi. Nel momento in cui scrivo la Borsa giapponese ha perso il 15 per cento dai recenti massimi; meno 12 i titoli tecnologici americani; meno 11 i beni di consumo durevoli; lo yen si è apprezzato del 9 per cento rispetto al dollaro e del 4 per cento il franco svizzero, valuta rifugio nei momenti di volatilità. L’indice della volatilità del mercato americano (Vix) a un certo punto ha raggiunto livelli che toccati solo al tempo del Covid. Impossibile sapere se queste oscillazioni continueranno, e per quanto a lungo: un po’ come i terremoti, dopo una prima forte scossa è impossibile prevedere forza e durata di quelle di assestamento.

Eccesso di tecno-ottimismo

Ci si domanda se la caduta dei mercati sia l’ennesima bolla che si sgonfia, dovuta all’ esuberanza irrazionale per l’intelligenza artificiale (IA), unitamente all’enorme concentrazione del rischio azionario nelle “magnifiche sette” (Nvidia, Apple, Meta, Google, Amazon, Microsoft, Tesla) ognuno delle quali vale quanto il Pil di un paese.

Certamente il multiplo a cui il mercato valutava i titoli tecnologici scontava una crescita degli utili che peccava per ottimismo. L’IA avrà un impatto enorme sull’attività economica e sulla vita delle persone. Oggigiorno un software è alla base dell’attività delle imprese, della gestione dei servizi pubblici, i servizi finanziari, il commercio, la pubblicità, come del funzionamento di mezzi di trasporto, media, comunicazioni; praticamente non c’è un’attività economica che non dipenda dall’informatica.

L’integrazione dell’IA in tutti i software li renderà più efficienti, e in grado di svolgere molti più compiti. Lo sviluppo dell’IA richiede tuttavia massicci investimenti. I dubbi degli investitori sul valore dei titoli tecnologici non riguardano le prospettive dell’IA, ma se queste saranno in grado di remunerare adeguatamente gli investimenti necessari, ovvero se imprese e consumatori saranno disposti a pagare di più per i servizi e i prodotti che incorporeranno l’IA.

Le valutazioni delle magnifiche sette erano eccessive ma non costituiscono una bolla finanziaria: una bolla è caratterizzata da titoli di società che non producono utili, ma le cui valutazioni dipendono da future quanto incerte prospettive di reddito; e dall’elevato uso della leva. Le sette sono invece società già oggi enormemente redditizie, che preferiscono investire gli enormi utili in progetti di investimento a lungo termine, piuttosto che distribuire dividendi; e possono farlo senza indebitarsi: l’anno scorso le sette hanno fatto investimenti per oltre 490 miliardi, 40 per cento della spesa per ricerca e sviluppo di tutte le imprese americane. Le valutazioni di Borsa riflettono la loro elevata redditività del capitale odierna. I dubbi del mercato riguardano dunque la loro redditività futura dovuta agli investimenti in IA, ovvero se questa sarà superiore o meno a quella del capitale esistente.

La volatilità dei mercati ha però riguardato quasi tutti i settori e tutte le borse, non solo i tecnologici americani. La ragione principale è il timore che gli alti tassi di interesse troppo a lungo possano portare a una recessione. La volatilità è pertanto un segno di sfiducia nelle banche centrali e nel il sistema di regole di politica monetaria che non sembrano più adeguate al nuovo assetto economico che si è venuto a creare post Covid.

Nell’ultima conferenza stampa il Governatore della Fed, Powell, non ha escluso che a settembre ci possa essere un primo taglio dei tassi dello 0,25 per cento, ma solo se i prossimi dati confermeranno la discesa dell’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento. E ha escluso il rischio di una recessione citando, tra gli altri, la crescita elevata della domanda interna privata anche nel secondo trimestre e la disoccupazione storicamente bassa.

Subito dopo però, il dato sull’occupazione inferiore alle attese ha innescato un crollo generalizzato della Borsa, perché molti investitori ritengono che un eventuale taglio dei tassi dello 0,25 a settembre sia troppo poco e arrivi in ritardo per scongiurare una recessione, tenuto conto del rallentamento dell’attività in atto, come evidenziato dalle previsioni delle società sugli utili futuri pubblicate insieme ai risultati semestrali. Inoltre, la Fed non terrebbe in debita considerazione che i tassi di interesse agiscono con ritardi lunghi e variabili: così è stato quando li ha alzati, così sarà quando li ridurrà.

Ombre di recessione

La ragione di tanta discrepanza tra Fed e mercati è che la prima sembra guardare ai livelli dei dati economici, che necessariamente rappresentano la situazione di un periodo concluso, mentre il mercato guarda alle variazioni, più utili ad anticipare l’andamento futuro. Un esempio è dato dalla disoccupazione: vero che è storicamente bassa, ma una regolarità empirica che considera la variazione della disoccupazione rispetto alla media dei dati recenti (Sahm rule) segnala recessione.

Il mercato ritiene quindi che la Fed sia in ritardo e per scongiurare la recessione dovrà tagliare a settembre non dello 0,25 ma di mezzo punto, seguito subito dopo da un altro mezzo punto. Così, se a settembre la Fed manterrà la propria posizione, riducendo dello 0,25, rischia la recessione; se invece taglierà due volte dello 0,5 come richiesto dal mercato, perde credibilità ammettendo che il rischio recessione è reale, e verrebbe accusata da Trump di favorire i democratici alle presidenziali, mettendo a rischio l’indipendenza della banca centrale. La volatilità è garantita.

A monte di tutto questo ci sono le regole che governano la politica monetaria che andrebbero ripensate. L’obiettivo del 2 per cento per l’inflazione, oltre a non avere un valido fondamento economico, andava bene quando nel mondo c’era carenza di domanda e la Cina era la manifattura a basso costo del mondo. Ma deglobalizzazione, rischi geopolitici, l’accorciamento delle filiere produttive, le guerre tariffarie, e l’invecchiamento mondiale della popolazione hanno innalzato strutturalmente l’inflazione di lungo periodo. Insistere sul 2 per cento aumenta quindi il rischio di recessione mentre sarebbe più logico adottare una forchetta del 2-3 per cento. Le banche centrali sono poi passate dalla politica monetaria basata su previsioni per ancorare le aspettative, alla dipendenza dai dati, col risultato di aumentare la volatilità in quanto gli investitori reagiscono, spesso in modo eccessivo, a ogni singolo dato nel tentativo di anticipare la reazione futura della banca centrale. Ed è quanto appena successo.

Le colpe della Bce

Tutte considerazioni che valgono anche per la Bce nonostante il diverso contesto istituzionale, prova ne sia che le borse europee hanno perso quanto l’americana dai recenti massimi di metà luglio pur non avendo “magnifiche sette” o la preponderanza di titoli tecnologici.

I problemi odierni sono anche il risultato della liquidità senza limiti creata con il quantitative easing (QE) che ha aumentato a dismisura la dimensione del bilancio delle banche centrali. Il QE ha salvato le economie dalla grande crisi finanziaria del 2008 e poi dal Covid. Ma ora non c’è una chiara strategia su come ridurre i titoli accumulati dalle banche centrali.

Quanto però sia costoso uscire dal QE ce lo ricorda il Giappone: i tassi nulli sullo yen sono stati a lungo usati per finanziare investimenti in monete ad alto rendimento; ma è bastato che la Banca Centrale avviasse l’aumento dei tassi per far scattare la corsa a chiudere i finanziamenti in yen e gli investimenti nelle altre valute, causando in questo modo un aumento della volatilità in tutti i mercati finanziari visto la loro interdipendenza e la mobilità dei capitali.

Anche Bce e Fed dovranno ridurre nel tempo il loro enorme stock di titoli: ma non sappiamo in quale modo e con quali conseguenze. Siamo dunque di fronte a una crisi delle regole cha hanno garantito stabilità monetaria per decenni, ma che ora non sono più adeguate e sono diventate fonte di volatilità e rischi finanziari.

© Riproduzione riservata