Le imprese nascono, crescono, a volte vivono a lungo, altre muoiono giovani, nessuna è immortale. Il dinamismo del sistema imprenditoriale è alla base della crescita della produttività in un’economia di mercato. Lo stato condiziona la vita delle imprese con le imposte, gli incentivi, e la regolamentazione; e con la politica industriale cerca poi di indirizzare le risorse.

Tim costituisce un esempio di come ci possa essere allo stesso tempo un fallimento del capitale privato, della regolamentazione e della politica industriale. Basta vedere il grafico allegato: 100 euro investiti nelle borse europee a inizio 2003, passata la bolla di internet, ne varrebbero oggi 500 (con i dividendi); solo 315 se investiti nell’indice delle società telefoniche; ma appena 20 in Tim.

La storia

È una storia nota, ma vale la pena raccontarla di nuovo. Internet ha permesso di interconnettere le persone nel mondo, e passare dall’analogico al digitale, potendo così trasmettere su di un’unica rete voce, testi e immagini.

Il mercato ha ritenuto inizialmente che le società telefoniche sarebbero state tra le principali beneficiarie di questa innovazione perché possedevano sia la rete fisica sia le frequenze etere su cui avrebbe viaggiato tutto il traffico di internet; e beneficiato della crescita esponenziale dei cellulari in circolazione che avrebbe moltiplicato il traffico sulle reti mobili.

A trarre il maggiore vantaggio sono state invece le imprese che hanno fornito la tecnologia sottostante alla rete e quelle che hanno saputo sfruttare internet per fornire servizi innovativi e dare agli utenti la capacità di usufruire della connettività.

Nel 2007 Netflix lancia il primo servizio di streaming e nello stesso anno Apple presenta l’iPhone che rivoluzionerà i vecchi cellulari trasformandoli in una rete di potenti computer usati da miliardi di persone per connettersi sempre e ovunque, e per svolgere in modo digitale un crescente numero di attività.

Due anni prima nasceva Facebook che avrebbe dato vita a una nuova forma di interazione sociale. Se si guarda al grafico si vede che le società telefoniche in Europa tengono il passo della borsa fino al 2015, per poi perdere sistematicamente terreno quando divenne chiaro che nella catena del valore generato da internet, alle reti “stupide” delle società telefoniche sarebbero rimaste le briciole.

Inoltre, il mercato dei cellulari, cresciuti da 122 milioni di unità nel 2007 a 1,5 miliardi nel 2014, era arrivato a saturazione: da allora il loro numero è andato calando fino ai 1,3 miliardi del 2023. In vent’anni il settore telefonico è così passato dall’ essere valutato come una nuova miniera d’oro da esplorare, alla stregua di un settore in declino.

Il ruolo dell’Ue 

Se il mercato è passato dalla miopia alla lungimiranza, la Commissione Ue ha fatto il percorso opposto. In Europa, le società telefoniche erano altrettanti monopoli pubblici: aprendo il settore ai privati e facilitando l’ingresso in ogni paese di nuovi operatori in competizione con gli ex-monopolisti la Commissiona ha avuto la lungimiranza di permettere la diffusione di massa di un bene oggi indispensabile come lo smarthpone, e promuovere la concorrenza nell’offerta dei servizi di comunicazione.

Ma gli anni della crescita delle società telefoniche sono finiti da un pezzo e richiedere quattro operatori per paese quando ce ne sono solo tre in tutti gli Stati Uniti, comporta un livello di concorrenza sui prezzi che comprime i margini riducendo la loro capacità di investire e di contribuire a ridurre il gap tecnologico europeo: così il rendimento sul capitale investito del settore telefonico negli ultimi dieci anni è stato in media di appena il 4 per cento, rispetto al 18 medio del settore tecnologico americano, che è poi il primo beneficiario di internet in Europa.

Opponendosi alle fusioni per ridurre il numero di operatori, la Commissione pecca oggi di miopia: se è vero che meno concorrenza significherebbe un aumento di prezzi per gli utenti, per avere più investimenti in un settore che ha smesso di crescere non c’è alternativa all’aumento dei margini.

Caduta rovinosa

Il settore telefonico europeo è in lento declino: ma in Italia la miopia del privato e del pubblico hanno trasformato il declino di Tim in una caduta rovinosa; basta guardare al grafico.

Oltre alle cause che hanno ridotto le prospettive del settore, Tim è stata penalizzata dal debito eccessivo che gli azionisti privati che si sono succeduti alla guida della società hanno utilizzato per preservare il controllo, non avendo i capitali per farlo.

È stata così utilizzata la leva perché questi azionisti, affetti da miopia acuta, facevano affidamento sulla rapida generazione di cash flow da parte di Tim per ripagare il debito: ma è successo esattamente l’opposto e l’indebitamento è diventato una zavorra insostenibile che si è aggiunta alle ragioni sottostanti al declino del settore europeo.

La politica industriale dello stato italiano, che ha toccato il punto più basso con questo governo, ha poi aggravato la miopia del privato. Nel 2015 lo stato costituisce OpenFiber tramite Cdp ed Enel (a cui subentra il fondo Macquarie) per far concorrenza a Tim nella rete, quando era chiaro che in un settore dai margini calanti e in un paese che non cresce non c’era spazio per due operatori; e lo fa con tanto debito. Poi entra in Tim nel 2018 per evitare lo “spezzatino”, ovvero la cessione di quella rete che pochi anni più tardi proprio stato avrebbe acquistato.

La concorrenza di OpenFiber aumenta le difficoltà di Tim che ha già un debito insostenibile per poter investire nella rete e nel 5G: così, per far cassa, cede le torri di trasmissione di Inwit e una quota di FiberCop (dove ha conferito la sua rete) al fondo Kkr.

Entra in scena il governo Meloni che accecato dal sogno dirigista di creare la società unica della rete a controllo pubblico, senza avere però i capitali per farlo e incurante del declino del settore, partecipa con Kkr all’acquisto di tutta la rete Tim; che così può deconsolidare una fetta di debito che rischiava di portarla al dissesto.

Ma il valore di Tim rimane depresso perché è pur sempre una società telefonica in un settore in declino in un paese che non cresce; con meno debiti ma anche meno margini perché adesso deve pagare l’accesso alla rete e alle torri che una volta erano sue. Nonostante la cessione della rete, Cdp rimane in Tim, perdendoci un mucchio di soldi.

Non contento il governo ha comperato da Tim anche i cavi di Sparkle, ricorrendo ancora una volta a un fondo, Asterion. Nel frattempo, il governo deve però rifinanziare l’enorme debito di OpenFiber, e lo fa “garantendolo” con i finanziamenti del Pnrr, ovvero erogati dallo stesso governo, a sua volta finanziati con debito pubblico, anche se comunitario, oltre a un aumento di capitale di Cdp.

Così lo stato, rimane socio di Tim, senza grandi prospettive, ma è anche azionista di ben tre società della rete, tutte molte indebitate, in un paese a bassa crescita che difficilmente potrà assicurare i cash flow necessari a ridurre l’indebitamento di tutte e tre, se non con una fusione che crei la famosa rete unica in condizioni di monopolio, potendo in questo modo aumentare le tariffe di accesso, e far felici con lauti dividendi i vari fondi partner.

Situazione che può anche peggiorare se la calorosa amicizia della premier con Elon Musk faciliterà lo sbarco di Starlink che è una valida, ed economica, alternativa alla rete fuori dai grandi centri. Una politica industriale miope, ma che temo sarà anche molto costosa per le tasche per il contribuente e i consumatori italiani.

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