Il premier Mario Draghi è a disposizione delle istituzioni e oggi la sua legge di Bilancio, praticamente senza essere discussa alla Camera, verrà finalmente approvata. Al suo insediamento nel febbraio 2021, Draghi disse che una riforma fiscale «è l’architrave della politica di bilancio» e dunque «non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta», anche se allo stesso tempo prometteva di rimettere mano solo all’Irpef per «semplificare e razionalizzare», ridurre il carico fiscale e «preservare la progressività». 

Draghi ha fin da subito rinunciato a una riforma fiscale complessiva. Almeno ha recuperato la riforma del catasto messa su un binario morto da Renzi, ma non si è visto niente su dividendi, titoli e depositi, o affitti che pure potevano essere inclusi nell’imposta personale sui redditi, l’Irpef, riformata.

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L’intervento sull’Irpef è arrivato dopo anni di misure sciagurate e quindi bastava poco per rendere il sistema più razionale. Il governo Draghi ha lasciato però la tripartizione della imposizione tra lavoratori dipendenti, pensionati e autonomi. Non ha toccato l’eccezione che permette agli autonomi con ricavi fino ai 65mila euro di pagare un forfait al 15 per cento. Eppure gli autonomi sono stati, assieme a giovani e donne, i più svantaggiati sul fronte della perdita di posti di lavoro, come aveva ricordato Draghi, e hanno tutele ancora limitate: poteva essere l’occasione per proporre un nuovo patto col fiscp e più tutele, e invece niente.

Le falle della nuova Irpef

La riforma dell’Irpef si limita dunque ad abbassare l’aliquota del secondo scaglione di 2 punti, quella del terzo di 3, e poi resta una sola aliquota al 43 per cento che scatta a 50 mila rispetto ai 55 mila precedenti. Ovviamente la riduzione degli scaglioni – si torna a quattro come durante il governo Berlusconi III – riduce la progressività. Il vantaggio rispetto ai gruppi di reddito, come ha certificato l’ufficio parlamentare di bilancio, si concentra sullo scaglione da 28 mila a 50 mila e è maggiore tra 40 mila e 50 mila euro. Tutti gli esperti di questioni fiscali sanno che negli ultimi anni gli interventi si erano concentrati sui primi scaglioni, ma ciò non toglie che a domanda puntuale il premier non abbia detto la verità in conferenza stampa sugli effetti della riforma. Il problema però non si limita a questo.

Il sistema “Draghi” è certamente più razionale in termini di aliquote effettive rispetto a quello precedente, ma come spiega in un intervento recente il professore di Scienza delle finanze de La Sapienza, Ruggero Paladini, resta frammentato e non linearmente progressivo. Tra 15 mila e 28 mila euro, ad esempio i dipendenti pagano una aliquota del 34,15, i pensionati del 31,4, gli autonomi del 28,4. Tra 28 mila e 50 mila i dipendenti il 43,68, più che lo scaglione successivo, i pensionati il 38,18, gli autonomi il 37,27. All’ultimo poi è stata introdotta una fiscalizzazione dei contributi crescente al crescere del reddito fino a 32 mila euro e solo per un anno, «idea balzana», secondo Paladini.

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Il bonus Renzi rimane fino a 15 mila euro ma non tocca chi non paga l’Irpef, cioè i lavoratori poveri. Eppure come certificato da uno studio coordinato da Andrea Garnero dell’Ocse il problema dei working poors in Italia va affrontato urgentemente, possibilmente con un intervento da introdurre nella riforma fiscale. Peccato che la riforma fiscale se ne sia dimenticata.

Sembra surreale sentire il ministro del lavoro Andrea Orlando annunciare la creazione di una commissione ad hoc, fuori tempo massimo. Del resto, una commissione che aveva lavorato in tempo, quella sul reddito di cittadinanza, non è stata minimamente ascoltata, lasciando una misura sensata distribuita in maniera assolutamente iniqua. Eppure Draghi dieci mesi fa riconosceva l’emergenza delle nuove povertà e le elencava una per una.

Soldi sprecati

Se poi si fosse voluto intervenire seriamente sulla progressività dell’Irpef senza che qualcuno pagasse di più si sarebbero dovute impiegare molte più risorse. Ma le risorse le abbiamo sprecate in altro: 31,2 miliardi solo per il Superbonus al 110 per cento tra 2022 e 2026, la maggioranza a favore dei più ricchi, anzi con risorse crescenti al crescere della ricchezza, e di un settore tra i più sussidiati. O anche nel rinnovo delle quote pensionistiche a favore di singoli gruppi, in cui i lavoratori uomini con carriere più continue la fanno da padrone.

Diceva Draghi a febbraio che «ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti» e diceva anche che un governo non si deve misurare nella sua durata: «conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni». Ora che il suo esecutivo potrebbe terminare, se solo rilasciasse interviste si potrebbe chiedergli conto della qualità di queste decisioni.

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