- L’inflazione scende lentamente e la risposta continua ad essere erroneamente affidata solo alle banche centrali. L’aumento dei profitti, certificato tra l’altro dal Fmi, ha portato a una guerra di religione incomprensibile.
- Che le imprese stiano approfittando della situazione o meno, non è il punto centrale. La vera questione è che, avide o meno, sono comunque riuscite a scaricare sui salari tutto il costo dell’inflazione.
- Se le imprese non si faranno carico di parte del costo, l’inflazione non scenderà o dovrà essere sradicata uccidendo l’economia.
L’inflazione continua a restare purtroppo sulle prime pagine dei giornali. Venerdì sono stati pubblicati i dati di giugno che confermano le tendenze dei mesi scorsi. Continua, anche più di quanto non fosse previsto, il calo dell’inflazione globale, ma rimane ostinatamente alta l’inflazione di fondo, che esclude energia e alimentari. Proprio la dinamica dell’inflazione di fondo (e il fatto che uno dei paesi in cui è aumentata sia la Germania) spiegano perché tra le banche centrali continuino a prevalere i falchi. Almeno per l’eurozona, un altro aumento dei tassi in luglio è praticamente sicuro.
Il Diario Europeo a più riprese ha argomentato che la natura dell’inflazione – inizialmente causata da fattori temporanei come prezzi dell’energia e ripresa post pandemica – richiede una pluralità di strumenti di contrasto, e che l’uso della politica monetaria impone dei costi, sull’attività economica, sulla stabilità finanziaria, sull’investimento pubblico e privato, che si potrebbero evitare. Per i paesi che come la Spagna hanno gestito meglio l’impatto della crisi energetica, oppure per quelli che hanno minore crescita, l’aumento dei tassi di interesse finisce per essere più restrittivo rispetto agli altri in cui l’inflazione rimane elevata.
L’inflazione da avidità
La settimana ha anche visto ripartire il dibattito sui profitti, con la bolla social degli economisti che è venuta alle mani sulla greedflation, l’“inflazione da avidità”. Il pretesto è stato un interessante articolo di ricercatori del Fondo monetario internazionale che analizza il ruolo di profitti, costo del lavoro e prezzi delle importazioni sulla dinamica dei prezzi nell’eurozona. I ricercatori presentano molti risultati interessanti: il primo, fonte delle discussioni più accese, è che l’aumento dei profitti spiega quasi la metà dell’aumento dei prezzi nell’ultimo anno (il 45%), seguito dai prezzi delle importazioni (principalmente l’energia) che spiegano il 40%. Il costo del lavoro spiega il rimanente 25%. Il secondo punto interessante è nell’analisi comparata: il ruolo dei profitti è più importante nell’eurozona che negli Usa o in Canada, e la dinamica è molto differente dall’ultima grande inflazione degli anni 70; in quell’occasione fu causata principalmente dalla dinamica salariale, mentre i profitti addirittura calarono.
Su questi dati, incontrovertibili, si è scatenata una discussione accesa. Molti hanno fatto notare che in questa fase abbiamo un problema di profitti. Se non scendono, impediranno all’inflazione di tornare verso l’obiettivo delle banche centrali. La pensano così i ricercatori del Fondo, ma anche figure istituzionali autorevoli come il membro del Consiglio della Bce Panetta, che in autunno prenderà il posto di Ignazio Visco come Governatore della Banca d’Italia. La stessa presidente della Bce Lagarde a più riprese ha messo in guardia contro il rischio di una corsa al rialzo tra profitti e salari per scaricare sugli altri attori i costi dell’inflazione.
L’autorevolezza di queste figure non ha impedito la levata di scudi di una parte del mondo accademico italiano. Lasciando da parte la sguaiatezza da social, la tesi è che i maggiori profitti non possono essere attribuiti all’avidità delle imprese, essendo semplicemente una conseguenza dell’aumento dei prezzi. La prova che non ci sarebbe un “problema profitti” risiederebbe nel fatto che in media i margini (il ricarico sui costi di produzione) non sono aumentati. Non ci sarebbe quindi greedflation. Implicitamente, si cerca di far passare l’idea che chi pone il problema della dinamica dei profitti sarebbe un nemico della libera impresa che vuole approfittare dell’inflazione per imporre lacci e lacciuoli.
La penalizzazione dei salari
Un’argomentazione è debole, che non identifica con chiarezza il problema. Lo sguardo d’insieme nasconde differenze settoriali molto importanti. I margini sono rimasti costanti in aggregato, ma sono cresciuti in modo significativo in alcuni settori (costruzione, dettaglio, energia), mentre sono addirittura leggermente calati in altri settori come il manufatturiero. L’aumento dei margini nel settore delle utilities e dell’energia ha svolto un ruolo nell’aumento dei prezzi in altri settori. Dove le imprese hanno legittimamente approfittato di situazioni di monopolio temporaneo o di esplosioni della domanda per aumentare i margini, altrettanto legittimamente soluzioni radicali come i controlli di prezzo sembrano non solo giustificate ma necessarie per evitare rendite eccessive e una spirale prezzi-profitti.
C’è un problema più generale, che certi economisti nostrani non vogliono vedere. Che ci sia o no avidità da parte delle imprese non è così importante. Il punto vero è che sono comunque riuscite a scaricare sui prezzi l’aumento dei costi, facendo quindi pagare ai salariati il prezzo dell’inflazione. I ricercatori del Fondo sono chiarissimi: per l’eurozona, importatrice netta di energia, l’aumento dei prezzi ha rappresentato uno shock negativo che ha ridotto il reddito nazionale (lo stesso ammontare di produzione domestica può comprare meno beni esteri, il cui prezzo è aumentato). L’evoluzione dei profitti mostra che il reddito delle imprese non è diminuito. Nel conflitto distributivo ci sono vincitori (i profitti) e vinti (i salari), principalmente per due motivi. Il primo è che i prezzi tendono a cambiare più in fretta dei salari (vincolati per esempio alla tempistica dei rinnovi contrattuali); il secondo, più strutturale, risiede nella debolezza contrattuale dei lavoratori (uno dei fattori, non il solo, che spiega la differenza con gli anni 70). La questione non è se le imprese sono avide o meno (e se chi si pone il problema sia anticapitalista) ma se è giusto che a portare sulle spalle il costo dell’inflazione sia solo una categoria.
Non solo se sia giusto, ma pure se sia efficiente. I salari alimentano la domanda di beni e servizi, se vengono compressi alla lunga soffrono anche le imprese. Lo aveva capito per primo Henry Ford quando nel 1914 aumentò quelli dei suoi operai perché potessero permettersi consumi considerati di lusso, come il suo modello T. Troppo spesso molti economisti nostrani lo dimenticano. La risposta a questa domanda deve essere data in fretta. Come ci ricordano i ricercatori del Fondo, nei prossimi mesi i salari recupereranno un po’ del terreno perduto. Se vogliamo vedere l’inflazione ridursi, o le imprese si rassegnano a ridimensionare la loro fetta di torta, oppure per portare sotto controllo l’inflazione, le banche centrali dovranno finire per uccidere l’economia.
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