- La presidente Giorgia Meloni e i vicepremier si sono lamentati dell’aumento dei tassi della Bce, ma usano pretesti sbagliati per contestare la decisione.
- Secondo il loro parere, l’inflazione sarebbe dovuta a fattori esterni, come la guerra, per cui non avrebbe senso usare la politica monetaria come strumento.
- In realtà l’inflazione non dipende più dai prezzi dell’energia, ma da dinamiche interne all’economia. Ecco perché un rallentamento economico è preferibile alla spirale prezzi-salari.
La presidente della Bce Lagarde ha annunciato al forum di Sintra che anche a luglio, la Bce proseguirà nella strategia di aumento dei tassi di interesse per contenere l’inflazione. Lagarde ha sottolineato che non è ancora possibile definire quale sarà il livello massimo che potranno raggiungere, perché non è ancora possibile capire quanto dovrà essere restrittiva la politica monetaria.
L’unica certezza è che farà tutto il necessario per frenare l’inflazione, anche a costo di dover mantenere i tassi alti per un periodo prolungato. Questo perché, sostiene Lagarde, nonostante i fattori che hanno causato gli shock iniziali sui prezzi siano terminati, i loro effetti si stanno ancora trasmettendo sull’economia. La spiegazione non è piaciuta alla maggioranza di governo.
Tajani teme il rischio di una recessione, Salvini è preoccupato dell’aumento dei tassi dei mutui e Meloni sostiene che «non si può non considerare il rischio che la cura sia più dannosa della malattia». Tutti e tre sono d’accordo su un punto: la politica della Bce non ha senso perché l’inflazione non dipende da fattori interni all’economia europea, ma esterni, come la guerra in Ucraina.
Se l’inflazione è importata dall’estero non è agendo sulla disponibilità di liquidità per famiglie e imprese che si risolve il problema. Quello che sostengono, però, è vero solo fino a un certo punto.
Da dove arriva l’inflazione
Dopo più di 25 anni di assenza, l’inflazione è tornata. Lo ha fatto dopo una delle crisi più grandi e strane della storia, quella pandemica, che ha bloccato completamente o quasi le attività produttive, tornate di punto in bianco a funzionare.
Da qui arriva uno dei primi motivi dell’aumento dell’inflazione. La ripartenza della produzione è stata rapida e improvvisa e questo ha portato al cosiddetto surriscaldamento dell’economia. Mentre l’offerta ripartiva, la domanda cresceva molto più rapidamente, sia perché la crisi è stata una crisi fino a un certo punto, dato che la maggior parte delle famiglie ha continuato a ricevere lo stipendio anche mentre non lavorava grazie agli aiuti pubblici, sia perché le persone hanno iniziato a consumare più di prima dopo l’esperienza del lockdown. Nel frattempo, l’offerta faceva fatica a stare al passo, anche a causa dei problemi nelle catene globali del valore.
Il vero shock è stato quello energetico: la Russia di Putin ha iniziato a chiudere i rubinetti del gas ben prima della guerra, e infatti l’inflazione aveva già iniziato a crescere nel 2021, ma è diventata davvero un problema dopo l’invasione dell’Ucraina. L’aumento del prezzo dell’energia ha avuto un effetto spiazzante sui prezzi, con l’inflazione che ha toccato picchi che non si registravano da decenni.
Oggi, il problema è in parte risolto. I governi nazionali e quello europeo hanno messo in piedi strategie per diversificare la dipendenza dall’estero per l’energia e i prezzi della materia prima sono scesi di molto, tornando a toccare i livelli del 2021. E allora perché il problema dell’inflazione non si è risolto?
L’aumento del livello generale dei prezzi ha scatenato una reazione a catena che non è semplice fermare: le imprese hanno aumentato i prezzi per mantenere costante il proprio margine, i lavoratori, vedendo il proprio potere di acquisto calare, hanno richiesto aumenti di stipendio, che riducono i margini delle aziende, che quindi aumentano i prezzi.
Questi aumenti a catena sono una reazione naturale nell’economia, ma in una situazione di alta inflazione possono portare alla cosiddetta spirale prezzi-salari, un circolo vizioso in cui gli incrementi diventano sempre più distorsivi e imprevedibili, con conseguenze gravissime sulla stabilità dell’economia e sulla capacità degli operatori di pianificare le scelte economiche. L’effetto finale è una depressione dell’economia, che finisce per ristagnare.
Meloni, Tajani e Salvini hanno ragione: l’aumento dei tassi è una scelta dolorosa che rischia di far rallentare l’economia fino alla recessione. Le conseguenze di un’alta inflazione per un lungo periodo sono però decisamente peggiori: dalla tassa occulta iniqua che penalizza i più poveri, fino al caos generato dall’instabilità dei prezzi. Non si rischia il Venezuela, naturalmente, ma i danni nel lungo periodo sono ben più gravi di un – si spera breve – rallentamento economico.
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