Il raggiungimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi, e la conseguente riduzione dei tassi di interesse, è ormai in vista, anche se non ancora del tutto acquisito; siamo invece solo all’inizio delle politiche finanziarie per assicurare la sostenibilità del debito, ma l’assenza di tensioni discernibili sul mercato dei titoli di stato indica che gli investitori, almeno per il momento, sono fiduciosi che anche questo obiettivo alla lunga sarà raggiunto.

Ripristinare la stabilità macroeconomica, tuttavia, non basta perché, come indicato nel piano Draghi, è la debolezza della struttura produttiva che mina la competitività dell’Europa.

Il Piano propone quindi un intervento coordinato a livello comunitario che stabilisca le priorità dei settori in cui intervenire, lasciando poi prevalentemente all’iniziativa delle aziende la decisione su quali investimenti e quali aggregazioni fare all’interno di un mercato unico europeo. E in assenza di un mercato dei capitali che abbia le dimensioni e la capacità di finanziare crescita e ristrutturazione dei settori di intervento, il piano prevede il ricorso al debito comunitario; sottolineando come la sostenibilità delle finanze pubbliche dipenda dall’utilizzo che si fa delle risorse.

Una nuova politica industriale diversa dalla vecchia accezione del termine dove i governi intervengono direttamente a favore di singole imprese per creare o difendere i cosiddetti campioni nazionali, con la presenza dello stato nel loro capitale, troppo spesso al solo scopo di sussidiare l’occupazione di aziende in declino, o di proteggerle dalla concorrenza straniera.

Un miope nazionalismo perché difendendo lo status quo e consolidati interessi locali, si riduce la capacità di crescere e innovare col risultato che l’Europa ha perso la rivoluzione tecnologica a favore dei grandi gruppi americani e rischia di perdere quella della transizione ambientale a favore dei cinesi.

Esempi europei

Alcune recenti vicende societarie hanno evidenziato la gravità della crisi strutturale europea e l’urgenza di una nuova politica industriale a livello comunitario. La prima riguarda le case automobilistiche europee.

L’automobile è un prodotto basato su una tecnologia vecchia: motore endotermico, trasmissione, carburanti, pneumatici si sono evoluti ma sostanzialmente sono gli stessi di quando cellulari, internet, e risonanza magnetica erano ancora nella mente degli scienziati.

Ciò nonostante, tutti i paesi europei hanno difeso e sostenuto la centralità della produzione domestica di auto con motore endotermico (puntando soprattutto sul diesel) per via delle ricadute sull’occupazione, tenuto anche conto della componentistica e di tutto quanto ruota attorno all’industria automobilistica (acciaio, logistica, elettronica, materiali plastici).

Oltre a immobilizzare enormi risorse in un settore scarsamente innovativo, l’auto europea è un bene di consumo durevole prodotto in un’area che è storicamente caratterizzata da una bassa crescita dei consumi privati; e il Covid ha fatto il resto: le immatricolazioni quest’anno in Europa sono così 20 per cento inferiori ai livelli di prima della pandemia. La strategia delle case europee è stata pertanto quella di espandersi all’estero: Stellantis genera quasi il 60 per cento dei ricavi tra Usa e Brasile, Bmw e Mercedes circa un terzo in Asia e un quarto in America, circa 60 è la percentuale di Porsche, e 40 di Volkswagen.

La Commissione Europea ha poi imposto il passaggio all’auto elettrica (Ev) e aumentato il costo delle emissioni per il settore, non tenendo conto dell’assenza di una rete capillare di colonne di ricariche e di produttori di batterie (la componente di maggior costo), oltre a non prevedere i sussidi per l’acquisto di Ev indispensabili a raggiungere le economie di scala necessarie perché i produttori possano ridurre i prezzi.

Gli investimenti delle case automobilistiche europee in Ev si sono rivelati un bagno di sangue, anche per via dei ritardi accumulati rispetto alle cinesi che ne hanno approfittato per dominare il loro mercato domestico dove prevalgono le vendite di Ev, riducendo così drasticamente la quota di mercato in Cina delle auto europee ferme al motore endotermico.

Le case europee hanno poi tagliato la produzione dei modelli più economici, per spingere quelli di fascia alta dai margini più elevati e aumentare i profitti: col risultato che ora si trovano con un elevato stock di vetture invendute, i margini falcidiati, gli esuberi dovuti al calo delle vendite (la Volkswagen chiude stabilimenti in Germania per la prima volta nella sua storia), e si trova la concorrenza cinese in casa.

Di fronte a una crisi di tale portata l’Europa non ha una strategia comune, salvo aumentare al 45 per cento i dazi sulle auto cinesi, con francesi e italiani che votano a favore perché Stellantis non vende in Cina, e tedeschi contrari perché la Cina è un mercato importante per Bmw e Mercedes, e temono ritorsioni da parte di Pechino.

Circolano poi indiscrezioni di una fusione Stellantis-Renault sponsorizzata dalla Francia che però aggraverebbe solo il problema visto che i ricavi della seconda per l’80 per cento sono in Europa; e il maggior produttore europeo di batterie, Northvolt, è sull’orlo del dissesto.

Telecomunicazioni

Manca una strategia comune europea anche nelle telecomunicazioni dove operano 23 operatori contro i quattro in Cina e i tre negli Usa. La concorrenza è stata essenziale per abbattere i monopoli statali che prevalevano trent’anni fa in ogni paese, ridurre i prezzi e rendere i cellulari un bene di massa; ma ora impedisce gli investimenti necessari alla digitalizzazione.

Le aggregazioni all’interno di ogni paese, e ancora di più transfrontaliere, cozzano però contro un Antitrust che ancora considera il singolo paese come mercato rilevante; ma se anche considerasse l’Europa un mercato unico, ci sarebbe l’ostacolo dei governi europei, azionisti di molte società, a sbarrare la strada alle fusioni a difesa dei loro campioni nazionali.

Quello italiano è andato oltre, creando addirittura una società unica della rete di fatto a controllo pubblico. Barriere che sono emerse anche nel caso dell’ingresso di UniCredit nel capitale di Commerzbank: tutti i governi a parole concordano sulla necessità dell’unione bancaria europea, purché riguardi le banche degli altri.

Si sostiene inoltre che l’acquisizione non darebbe vita a un vero gruppo pan-europeo essendo di fatto un’aggregazione tedesca tra Commerzbank e HypoVereinsbank: vero ma solo in parte perché le aggregazioni nazionali sotto un unico gruppo sono il primo passo indispensabile per creare una vera banca europea.

In Italia nanismo ed esercizio del controllo accentuano le debolezze strutturali europee. L’uscita di Brembo, controllata dalla famiglia Bombassei, dal capitale di Pirelli di Marco Tronchetti Provera, ha fatto naufragare la possibilità della creazione di un gruppo nella componentistica auto che potesse fare da aggregatore in un settore ancora molto frammentato e raggiungere le dimensioni che gli investimenti in tecnologia richiedono per competere: immagino per una mera questione di controllo.

Discorso analogo nel lusso: non si contano i marchi italiani finiti nell’orbita dei grandi gruppi Lvmh, Kering e Richemont: impossibile rimanere piccoli e mantenere il controllo in un settore che richiede enormi investimenti per lo sviluppo commerciale e la distribuzione dove il mercato rilevante è il mondo.

Non sorprende pertanto l’ingresso di Lvmh, prima in Tod’s e ora in Moncler, con quote minoritarie ma di fatto opzionandone il controllo. Per crescere servono le spalle larghe dei grandi gruppi: così, poco dopo l’ingresso di Lvmh, Moncler ha firmato il contratto per aprire il suo flagship store in uno degli spazi più costosi al mondo sulla Quinta strada a New York.

È ora che i governi europei capiscano che è anche nel loro interesse definire una politica comune per recuperare la competitività perduta, o avranno sempre più vita breve travolti dallo scontento e crescente risentimento dei cittadini che vedono continuamente erodere il loro benessere e prospettive reddituali.

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