La Fed, tagliando i tassi dello 0,5 per cento, ha dato l’avvio al processo di discesa dei tassi, e creato l’aspettativa per ulteriori tagli. Il presidente Jerome Powell ha dichiarato infatti che la lotta all’inflazione è vinta e quindi non costituisce più un obiettivo per la Banca centrale; non si vedono rischi di recessione; e il taglio è giustificato dal fatto che i tassi attuali, al netto dell’inflazione, eccedono il livello coerente con la crescita secolare.

Quattro le novità nelle dichiarazioni di Powell. La politica monetaria cessa di essere “data dependent”, ovvero non aspetta di conoscere i dati, ma si muove in anticipo diventando proattiva: l’inflazione non è più un obiettivo anche se rimane superiore al 2 per cento perché si guarda alla sua dinamica futura, che è coerente con il raggiungimento del 2. E si riducono i tassi reali non tanto per scongiurare un imminente rischio di recessione ma perché troppo elevati rispetto alla piena occupazione di lungo periodo.

La discesa dell’inflazione appare in gran parte dovuta al rispristino di condizioni di equilibrio dal lato dell’offerta di beni e servizi, venendo quindi meno la necessità di una politica restrittiva che agisca dal lato della domanda. Infine, con l’avvio di una fase di discesa dei tassi, l’attenzione si sposta su quale sarà il livello del tasso “neutrale”, ovvero quello che dovrebbe prevalere una volta ripristinati stabilità dei prezzi e crescita: il consenso si colloca tra il 3 e il 4 per cento, più elevato che in passato, segno dell’attesa di una maggiore produttività dovuta alla rivoluzione tecnologica, e anche di una più alta inflazione strutturale per via dell’invecchiamento della popolazione, i minori benefici del commercio internazionale dovuti alle barriere tariffarie e ai rischi geopolitici, e il maggiore onere del disavanzo pubblico.

Fiducia o sfiducia nel futuro?

Per gli Usa, quindi, prevale lo scenario “soft landing”: una crescita non inflazionistica, ancorché inferiore al trend, ma con piena occupazione e un aumento della produttività. Un soft landing reso possibile da una crescita dei consumi delle famiglie superiore al reddito disponibile, segno di fiducia nel futuro, e degli investimenti privati grazie all’elevata redditività del capitale.

Molto diversa la situazione nell’Eurozona. La lotta all’inflazione è vinta anche da noi, con l’aumento dei prezzi nell’area al 2,2 per cento, e già inferiore al 2 in Francia e Germania. Non così per la Bce: ancora nell’ultima riunione ha riaffermato la necessità di continuare a monitorare i dati, e in particolare la crescita dei salari, prima di dichiarare esplicitamente che l’inflazione non è più un problema e avviare la fase di discesa dei tassi. Né si conosce quale dovrebbe essere per la Banca centrale il livello neutrale dei tassi.

Sorprende se si considera che, a differenza degli Usa, i consumi delle famiglie nell’Eurozona crescono meno del reddito, aumentando il saggio di risparmio, chiaro segno di un crollo della fiducia; languono gli investimenti privati; la prima economia, la Germania, è ufficialmente in recessione; e nella prima parte del 2024 il Pil dell’area è stato trainato prevalentemente dalle esportazioni, quando non si vede una via di uscita alla crisi immobiliare della Cina, grande mercato di sbocco per le imprese europee, e la crescita del commercio internazionale sta rallentando per via dei rischi geopolitici.

Inoltre, mentre la politica fiscale americana probabilmente continuerà a sostenere consumi e investimenti – è difficile infatti immaginare che il nuovo presidente adotti l’austerità nel primo anno del suo mandato (più facile il contrario nel caso di Donald Trump) – l’Europa avvia una fase di restrizione fiscale col Patto di stabilità.

Lo scenario per l’Eurozona diverge quindi dagli Usa, con il rischio di recessione o stagnazione che rimane elevato. Lo confermano le stime per il 2025 delle maggiori società quotate: mentre per i titoli dell’indice S&P 500 ci si attende una crescita degli utili e dei ricavi rispettivamente del 15 e 6 per cento, è nulla la crescita attesa degli utili per l’indice EuroStoxx, e appena del 3,7 quella dei ricavi. Il monito di contenuto nel Piano Draghi sulla crescente perdita di competitività dell’Europa non potrebbe essere più attuale e rilevante.

Vista dall’Italia

Il governo italiano è alle prese con il Piano strutturale di bilancio che dovrebbe riportare il deficit al sotto del 3 per cento nel 2026 come richiesto dal Patto di stabilità. Avrebbe già dovuto presentarlo alla Commissione, ma ha giustificato il ritardo con la necessità di aspettare la revisione dei dati del Pil da parte dell’Istat: ci si concentra sullo zero virgola, a prescindere che la spesa pubblica finanziata col debito (ovvero il deficit) siano trasferimenti improduttivi e sprechi (come spesso accade in Italia) o investimenti pubblici con forti esternalità per la crescita del paese.

Per capire quanto sia fuorviante la discussione sul deficit del 3 per cento ai fini della comprensione dello scenario economico che ci attende è utile esaminare proprio i due grafici riportati nella nota di revisione dell’Istat (e qui sopra riprodotti). Il primo mostra come il Pil a prezzi costanti sia sceso stabilmente dalla grande crisi del 2008 fino alla vigilia della pandemia nel 2019: caso unico di decrescita infelice nel mondo occidentale.

E solo l’anno scorso il Pil ha recuperato, superandolo di poco il livello di 15 anni fa. Una stagnazione del reddito pro capite così a lungo mina la capacità di sostenere il welfare, e il benessere dei cittadini diventa un gioca a somma zero che disgrega la coesione sociale. Anche questo un monito del Piano Draghi.

Il secondo grafico mostra come la decrescita fino al 2019 sia coincisa con l’austerità che ha imposto all’Italia un avanzo primario medio pari all’1,3 per cento del Pil: in un paese incapace di crescere, la sostenibilità del debito pubblico diventa quindi incompatibile con il benessere. I due grafici mostrano inoltre come la ripresa economica a partire dal 2021 sia dovuta per la maggior parte a una politica fiscale fortemente espansiva cha ha comportato un disavanzo primario del 4,7 del Pil.

Chi guarda allo spread dei Btp o allo zero virgola in più o in meno del deficit l’anno prossimo per capire il futuro che ci attende soffre dunque di miopia. Perché la spinta fiscale del Pnrr che ha sostenuto la crescita negli ultimi anni presto verrà meno, e in assenza di investimenti che aumentino la produttività, in un prossimo futuro si riproporrà la dolorosa alternativa tra stabilità finanziaria e decrescita che ha caratterizzato il nostro passato.

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