- Il mercato tira nell’e-commerce e la multinazionale Whirlpool, che è la più grande azienda al mondo nel settore, incrementato il personale del 3 per cento negli ultimi sei mesi. Ma non a Napoli, dove vuole licenziare tutti i 330 lavoratori riaprendo la procedura avviata a novembre.
- Non è l’unico caso di fabbrica di elettrodomestici che, pur vivendo un momento d’oro degli ordinativi, vuole chiudere, dismettere, andarsene dall’Italia.
- C’è anche Elica che vuole lasciare le Marche per demoralizzare in Polonia, Embraco in provincia di Torino e Acc Wanbao Mel a Belluno, in vendita dopo l’addio dei capitali cinesi
Gli elettrodomestici hanno avuto un consistente boom durante l’ultimo anno, complice la pandemia che ha costretto tutti a passare più tempo in casa. Il mercato tira nell’e-commerce e la multinazionale Whirlpool, che è la più grande azienda al mondo nel settore, ha fatto affari d’oro e incrementato il personale del 3 per cento negli ultimi sei mesi. Dappertutto ma non a Napoli, dove invece a fine giugno intende licenziare tutti i 330 lavoratori riaprendo la procedura avviata a novembre ma rimasta congelata per effetto del blocco dei licenziamenti collettivi.
Non è l’unico caso di fabbrica di elettrodomestici che, pur vivendo un momento d’oro degli ordinativi, vuole chiudere, dismettere, andarsene dall’Italia. C’è anche Elica che vuole lasciare le Marche per delocalizzare in Polonia, Embraco in provincia di Torino e Acc Wanbao Mel a Belluno, in vendita dopo l’addio dei capitali cinesi. Tutti dossier che fanno rizzare il pelo ai sindacalisti dei metalmeccanici per due ordini di motivi: il primo è la progressiva deindustrializzazione di interi territori in un settore che sta vivendo un momento d’oro, persino in Borsa, e l’altro motivo è che questi stessi dossier sembrano marcire in qualche cassetto del ministero dello Sviluppo economico. Nessun tavolo, nessuna convocazione da parte del ministro Giancarlo Giorgetti, nessun intervento di mediazione o telefonata intercontinentale per richiamare le multinazionali alle loro responsabilità, nessuna acquisizione o partecipazione o nuovo acquirente trovati da Invitalia. Insomma niente di niente. Whirlpool è il caso più pesante e la chiusura dello stabilimento di via dell’Argine a Napoli una bomba sociale innescata che rischia di scattare già questo venerdì quando Fiom Fim e Uilm hanno convocato tutti i lavoratori dei sei stabilimenti del gruppo a Roma, sotto il ministero dello Sviluppo economico, per un ennesimo e finale presidio di protesta.
Interinali e chiusure
La multinazionale con sede centrale nel Michigan ma cervello operativo per Europa, medio oriente e Africa a Rho, vicino a Milano, ha preso un migliaio di lavoratori interinali per far fronte al picco di ordini dell’ultimo periodo ma sulla chiusura di Napoli finora non ha concesso alcuno spiraglio alla trattativa. I sindacati non sono soltanto esacerbati dal mancato rispetto dell’accordo firmato nel 2018 per il rilancio dello stabilimento campano, ora sbandierano tutti i finanziamenti pubblici che hanno continuato a affluire nelle casse della Whirlpool Italia senza contropartita occupazionale. Si calcola che tra cassaintegrazione prima, durante e dopo il Covid e altre agevolazioni lo stato abbia dato alla Whirlpool almeno 100 milioni di euro. «Giorgetti ha detto che non vuole tenere in vita con fondi statali aziende considerate zombie, ma questo non è il caso», sostiene Barbara Tibaldi, segretaria nazionale della Fiom Cgil che si occupa delle crisi del settore. A Napoli si facevano lavatrici, l’impianto avrebbe potuto produrre fino a mille pezzi ma – dicono gli operai per difendersi dall’accusa di scarsa produttività – le linee venivano tarate a meno della metà. «La verità è che la multinazionale vuole uscire dal segmento di mercato dell’alta gamma, lo sta facendo anche in Turchia e altrove, ma visti gli impegni presi il governo potrebbe imporre una riconversione su altre produzioni», sostiene Tibaldi. E racconta che l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte almeno prese il telefono e chiamò, alla fine, il quartier generale negli Stati Uniti per chiedere un incontro ai massimi livelli. «Giorgetti l’unica volta che ci ha convocato ha detto: vi richiamerò non appena avrò una proposta seria, sono passati quattro mesi ma non l’abbiamo sentito e ora, tra due settimane, questi lavoratori rischiano di trovarsi senza stipendio e senza cassa integrazione oltre che senza prospettive», fa notare la sindacalista.
La cassa integrazione e poi?
Giuseppe Conte nel frattempo tre giorni fa, quando è andato a Napoli a sostenere il candidato unitario del centrosinistra per le comunali, il suo ex ministro Gaetano Manfredi, ha usato il credito della telefonata internazionale fatta per incontrare una delegazione dei cassintegrati Whirlpool. Ma l’attuale vice ministra al Mise, la pentastellata Alessandra Todde, ha chiarito che «poche sono le leve a disposizione» del governo per condizionale una multinazionale che intende licenziare. Una sola a dire il vero: la cassa integrazione a totale carico dello stato fino a dicembre prevista dal decreto sostegni bis in cambio della garanzia di non procedere nello stesso periodo ai licenziamenti. E poi? Nel caso di Embraco e di Acc (ex Zanussi), entrambe produttrici di compressori per frigoriferi, dopo l’abbandono cinese, durante il passato governo l’afflato di difesa della sovranità produttiva aveva partorito uno dei rarissimi progetti di re-industrializzazione per mano pubblica: una nuova società chiamata ItalComp che sotto la guida di Invitalia avrebbe dovuto riunire sotto un’unica gestione e un unico marchio le due fabbriche e i circa 700 operai nel nuovo polo dei motori refrigeranti. Il progetto però non è stato proseguito da Giorgetti, che infatti come prima o passo l’ha tolto a Invitalia, per poi riporlo nel solito cassetto.
Intanto neanche i rappresentanti dei 400 lavoratori dei due stabilimenti marchigiani del gruppo Elica, ex campione italiano delle cappe aspiranti, hanno avuto l’onore di un incontro al Mise. Il gruppo è finito in mano a un fondo di private equity che ha deciso di ridurre il personale a Fabriano e di delocalizzare in Polonia le linee di produzione della fabbrica di Cerreto d’Esi, in provincia di Ancona. E questo quando il segmento di mercato delle cappe aspiranti è in pieno boom, tanto che l’azienda ha avuto nel primo semestre dell’anno un fatturato record. Barbara Tibaldi si dice «sconfortata» dall’assenza di risposte della politica alle crisi aziendali. Per lei senza una difesa dei polmoni industriali esistenti anche gli ingenti investimenti previsti nel piano di ripresa e resilienza rischiano di essere «soldi buttati» senza nessuna garanzia della tenuta dei livelli occupazionali. E ricorda in Francia e in Spagna i governi si sono dotati di normative che condizionano le elargizioni di fondi pubblici e di agevolazioni fiscali al rispetto dei piani industriali e dell’occupazione.
© Riproduzione riservata