- Quanti miliardi sarebbero, per esempio, disposti a pagare a Monsieur Vincent Bolloré i sovranisti di casa nostra per proseguire nel progetto di una rete a controllo pubblico?
- Se la crisi Ilva potesse votare cercherebbe inutilmente nella scheda il partito che non c'è, quello della realtà.
- Se c’è una cosa su cui Draghi non ha mai voluto mettere la faccia è proprio Mps, il peso della firma sul peccato originale dell’acquisizione di Antonveneta era già abbastanza.
Tutti la cercano, ma Giorgia Meloni si nega: non vuole parlare ora alla corte di manager di stato che annusano che da lei dipenderà il loro futuro, e probabilmente non vuole nemmeno mettere le mani nella realtà che la investirà in autunno, da Tim a Ita, dall’ex Ilva a Mps, dopo il tempo della fantasia della campagna elettorale.
In attesa di un piano B
Quanti miliardi sarebbero, per esempio, disposti a pagare a Monsieur Vincent Bolloré i sovranisti di casa nostra per proseguire nel progetto di una rete a controllo pubblico? Se c’è una cosa che va riconosciuta a Fratelli d’Italia è che sulla rete unica ha sempre avuto idee chiare e più europee di tanti altri. Alessio Butti, l’uomo che per Meloni segue le faccende delle telecomunicazioni ha speso gli ultimi anni a parlare con tutti coloro che conoscono il settore.
Il governo Conte II e la Cdp dell’era Palermo, erano pronti ad assecondare i desiderata dell’ex amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi, che pretendeva una rete unica in mano all’ex monopolista di stato privatizzato oramai da vent’anni e con un’integrazione verticale, che l’Ue non avrebbe autorizzato. Poi i buchi nei conti hanno accompagnato Gubitosi alla porta, nonostante il teatro di una opa annunciata e mai realizzata da Kkr. Quello che resta è l’impegno della Cdp di Dario Scannapieco, azionista di Tim e Open Fiber, su un piano con scorporo tra rete e servizi. Sarebbe la soluzione per salvare Tim dai suoi debiti, distribuendoli, e riprendere il controllo dell’infrastruttura.
L’azionista Vivendi, però, dopo una campagna d’Italia perdente, per la sua quota punta a intascare il massimo o, il dubbio non è sciolto, a far fallire l’operazione. Cdp secondo gli accordi dovrebbe presentare una prima offerta non vincolante entro fine mese, ma la scadenza è già destinata a slittare: per chi conosce la vicenda si va a fine agosto, mentre quella vincolante va presentata per fine ottobre, a nuovo governo già insediato. Bolloré dice di non accettare una valutazione della rete Tim sotto i 34 miliardi, 10 miliardi in più delle stime italiane. Se Vivendi non si smuove, l’operazione agognata è già morta e nemmeno Tim si sentirà tanto bene. Butti dice che presenteranno un piano B, ma quale sarebbe? Una opa su Tim di Cdp, una delle poche alternative, smentirebbe la linea Scannapieco.
Se invece si tratta, sarà divertente vedere quanto il partito che ha sempre lanciato strali contro gli odiati investitori francesi, e l’alleato Berlusconi, che con Bolloré ha siglato una pace in tribunale, sono disposti a sborsare per fare uscire di scena Vivendi. Del resto Bolloré non ha fatto crollare ponti, è un semplice investitore privato in una azienda privata e poi trattata come fosse pubblica.
Sull’orlo del collasso
Il 26 luglio 2012, dieci anni fa, il giudice per le indagini preliminari di Taranto Patrizia Todisco mise sotto sequestro giudiziario gli impianti dell’Ilva, una delle acciaierie più grandi d’Europa, al culmine dell’inchiesta sull’inquinamento che da decenni funestava la città.
A dieci anni di distanza l’azienda è sull’orlo del collasso, non paga i fornitori e migliaia di lavoratori sono in perenne cassa integrazione. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ribadito un paio di mesi fa l'obiettivo di far tornare l'Ilva la prima acciaieria d'Europa. È questa l'eredità scomoda che la cosiddetta Agenda Draghi lascia alla campagna elettorale flash di quest'estate.
Se la crisi Ilva potesse votare cercherebbe inutilmente nella scheda il partito che non c'è, quello della realtà. In dieci anni, al capezzale dell'Ilva sette governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi) hanno recitato lo stesso copione inseguendo il sogno di un'acciaieria grande, produttiva, competitiva e pulita. I dieci anni sono trascorsi in discussioni bizantine su come risolvere un’equazione impossibile. Il mercato mondiale dell’acciaio però non consente questi giochini.
Se anche si togliesse di mezzo, per assurdo, il tema ambientale, la sorte dell’Ilva apparirebbe segnata. Nel 2021 i suoi ricavi sono più che raddoppiati a 3,4 miliardi grazie all'impennata dei prezzi, consentendo un utile di 309 milioni, inferiore al 10 per cento del fatturato.
Questi numeri corrispondono a una diagnosi infausta. Arcelor Mittal, numero uno mondiale dell'acciaio, quindi principale concorrente dell’Ilva ma anche il gruppo a cui lo stato italiano ha sventatamente consegnato la gestione di Taranto, nel 2021 ha aumentato i suoi ricavi di 23 miliardi (da 53 a 76) e i suoi utili di 15 miliardi (da 2 a 17): due terzi dei maggiori ricavi sono stati trasformati in profitti.
L’Ilva ha convertito in utili solo un sesto dei maggiori ricavi. Questo significa che è un malato grave le cui condizioni sono state aggravate per dieci anni dai medici pietosi dell’ipocrisia politica.
Il futuro di Siena
Mps è, a suo modo, una certezza: c’è sempre un piano industriale appeso al taglio del personale, sempre un motivo per rimandare la privatizzazione, sempre miliardi da iniettare per fare stare la banca in piedi e sempre una campagna elettorale in cui le promesse sulla città in crisi possono portare guadagni politici.
Gli ultimi tre amministratori delegati, Salvatore Morelli, Guido Bastianini e ora Luigi Lovaglio, hanno presentato piani praticamente fotocopia, i primi due hanno fallito sempre sullo stesso punto da cui quei piani fondamentalmente dipendevano: ridurre il personale abbastanza da non dover chiedere nuovi soldi. L’ultima settimana di agosto Lovaglio firmerà l’accordo coi sindacati per gli esuberi, poi, però deve convincere i dipendenti ad andarsene a migliaia entro la fine dell’anno.
Nel frattempo, la città è passata da roccaforte del Partito democratico a conquista della Lega, che ha sfruttato a suo vantaggio il rapporto storico e incestuoso tra Pd e banca, ma ha anche continuato a osteggiare la necessaria acquisizione di Siena da parte di altri istituti di credito.
Il Pd, intanto, ha accantonato la banca e ottenuto da Draghi nell’ultima legge di Bilancio 30 milioni di euro per il biotecnopolo della città, attirandosi le critiche di chi come la senatrice Cattaneo chiede che i fondi agli enti di ricerca siano assegnati con procedure competitive. Il ministro Speranza ha benedetto l’operazione aprendo l’hub anti pandemie. Nei prossimi sessanta giorni si attendono scintille nel collegio che ha eletto il segretario dem Enrico Letta. La magra consolazione è che con Draghi non sarebbe cambiato granché. Se c’è una cosa su cui Draghi non ha mai voluto mettere la faccia è proprio Mps, il peso della firma sul peccato originale dell’acquisizione di Antonveneta era già abbastanza.
Tre incognite su Ita
Dopo la caduta del governo di Mario Draghi tre incognite gravano sulla vendita di Ita Airways, la piccola compagnia che dal 15 ottobre 2021 ha preso il posto di Alitalia. Prima incognita: un governo in carica per la normale amministrazione può decidere su una faccenda di politica economica così rilevante? Secondo i dirigenti di Ita sì. E forse da un punto di vista formale hanno ragione: c'è una norma governativa che autorizza la vendita, il Decreto della presidenza del consiglio dei ministri (Dpcm) e quindi ora si tratta di essere conseguenti con un atto meramente esecutivo di ordinaria amministrazione.
Ma proseguendo come se niente fosse e seguendo i tempi fissati, il signing, cioè la firma dell’accordo di vendita, sarebbe sottoscritto in estate dal governo dimissionario, mentre il closing, cioè la vendita vera e propria, sarebbe definita in inverno dal prossimo governo. Mettiamo il caso non improbabile che il futuro governo abbia idee assai diverse sulla stessa vendita, che fa? Deve autorizzare una decisione presa da altri, ma che non condivide? Il problema dunque non è procedurale, ma politico.
Seconda incognita: a chi deve essere venduta Ita? La risposta somiglia alla precedente. Ci sono due cordate in lizza, Msc più Lufthansa da una parte e il fondo americano Certares più Delta e Air France dall’altra. All’inizio di luglio hanno presentato le loro offerte vincolanti che sono assai diverse: più generosa in termini di capitali Msc-Lufthansa (850 milioni di euro contro 650), propensa a far scegliere il futuro amministratore dal ministero quella Certares. Il ministero dell’Economia, ora guidato da Daniele Franco, dovrebbe scegliere.
Ma è logico sia un ministro dimissionario a scegliere tra offerte assai diverse ipotecando il futuro di un’azienda pubblica? Terza incognita: che cosa succede se Ita non viene venduta prima della fine dell’anno? Siccome la piccola compagnia perde 2 milioni di euro al giorno e il capitale messo a sua disposizione dal governo Draghi è di 750 milioni di euro, se Ita non viene venduta fallisce.
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