La vendita di Ita, le manovre di Eni, il crollo di Tim, le agitazioni della Rai e la vendita di un altro pezzo di Mps sono segni di politiche pubbliche orientate, nel migliore dei casi, alla gestione della svalutazione degli asset del paese
Il ministro Giancarlo Giorgetti ha accusato l’Antitrust europeo di boicottare la vendita di Ita Airways a Lufthansa, poiché chiede la cessione di alcune rotte; e di farlo per avvantaggiare Air France.
Vero che l’Antitrust spesso privilegia gli interessi dei concorrenti piuttosto che dei consumatori, ma sorprendersi della richiesta di concessioni, come solitamente avviene, è perlomeno ingenuo; e sorprende che il tema non sia stato preventivamente affrontato con l’autorità europea.
Ma accusarla esplicitamente di violare il proprio mandato per fare politica e difendere gli interessi dello sato francese, azionista di Air France, mi sembra una reazione scomposta ed esagerata.
L’unica supposizione è che da parte italiana si tema che le concessioni richieste dall’Antitrust mettano a repentaglio la vendita a Lufthansa, perché giudicata non più conveniente dai tedeschi.
È solo un dubbio, ma legittimo, visto che Lufthansa acquista il 40 per cento di Ita, pur volendo il controllo sulla gestione, riservandosi di salire nel capitale solo dopo aver verificato che Ita sia redditizia. Evidentemente qualche dubbio ce l’ha, e la perdita di rotte non aiuta.
Giorgetti ha anche accusato la “burocrazia” per i ritardi nell’attuazione del Pnrr. L’Italia è di gran lunga il primo beneficiario del Next Generation Ue, avendo ricevuto a oggi il 45 per cento di tutti i 224 miliardi erogati agli Stati Europei (esattamente 102 miliardi), sotto forma di finanziamenti a fondo perduto o a fronte di debito emesso dalla Commissione, e quindi garantito dai paesi dell’Unione: in entrambi i casi sono risorse che gravano sui contribuenti di tutta Europa.
Che quindi la “burocrazia” europea voglia controllare l’utilizzo che facciamo dei fondi, mi sembra il minimo. Anche perché dei 102 miliardi ricevuti, il governo ne ha allocati solo 68: qui la burocrazia europea non c’entra, e quella italiana dipende proprio dal governo e dalle norme del parlamento, dove i partiti di governo hanno la maggioranza.
Dei 68 miliardi, 24 sono andati alle Ferrovie dello Stato, e oltre 5 a Tim e Open Fiber, due società a controllo pubblico o, nel caso della Rete, che lo diventeranno nelle intenzioni del governo.
La gran parte dei rimanenti 39 miliardi è stata allocata agli enti locali, per un quarto alle prime quattro regioni e i loro capoluoghi, (Lazio, Lombardia, Sicilia e Campania). Sono dunque gli enti locali la principale fonte di inefficienza.
Ma visto che proprio questo governo vuole aumentarne l’autonomia gestionale, forse sarebbe ora che si preoccupasse che gli enti locali ne abbiano le capacità.
Infine, l’uscita di Giorgetti è un grande assist per chi in Europa vuole affossare ogni ulteriore esperimento di mutualizzazione del debito.
Le manovre di Eni
Con la transizione ambientale gli investitori premono perché le società energetiche cedano le attività nelle fonti fossili per investire nelle rinnovabili.
Grande sorpresa ha quindi destato nel giugno scorso l’acquisto da parte di Eni di capacità estrattiva nel gas per 5 miliardi, pagando “cash”; che ora vuole conferire in parte nella società inglese Ithaca in cambio di azioni.
Eni quindi punta tutto sul gas, contando che rimarrà la principale fonte energetica del paese, e vuole accaparrarsi fonti alternative alla Russia.
Eni è a controllo pubblico e quindi si deve desumere che questa scelta strategica rifletta la politica energetica del governo, oppure che sia il management di Eni a imporla al governo.
Non so quale delle due sia la risposta giusta, ma Eni vale oggi sul mercato 6,9 volte l’utile atteso, a sconto del 12 per cento rispetto alla media delle principali società energetiche europee (Total, Bp, Shell, Equinor): significa che Eni varrebbe oltre 5 miliardi in più se fosse valutata in linea con i concorrenti.
La strategia di Eni, pertanto, non solo rallenta la transizione energetica del paese, ma sta penalizzando anche le casse dello stato azionista.
La stagnazione di Saipem
Controllata da Eni e da Cdp, Saipem è un perfetto esempio di come la proprietà pubblica rallenti gli inevitabili processi di ristrutturazione aziendale, aumentandone i costi. La società ha infatti perso per 10 anni di fila, dal 2013 al 2022, per complessivi 8 miliardi; e dai massimi di 126 euro del 2012, il titolo oggi ne vale appena 2,3. Il 2023 è il primo anno in cui Saipem ha registrato un utile, che dovrebbe raddoppiare quest’anno: ma ristrutturazioni così lunghe e costose contribuiscono alla stagnazione della produttività del paese.
Sempre a proposito della produttività, il dato sul crollo delle nascite in Italia, il più basso dal 1861, dovrebbe costituire un campanello di allarme per il governo, e contrastare il fenomeno con politiche lungimiranti, invece dei soliti slogan, una sua priorità: infatti con 4,4 milioni di bambini sotto i 10 anni e 4,5 milioni di over 80, o c’è un forte aumento della produttività dei giovani, improbabile, o il dissesto delle finanze pubbliche alla lunga è garantito.
La Rai è un braccio della politica, ma anche una società per azioni che deve rispettare i vincoli di bilancio. Così, per abbattere il suo debito crescente, il governo ha ridotto dal 65 al 30 per cento la quota che Rai deve mantenere in Raiway, la società che gestisce le sue torri di trasmissione, permettendole di vendere per far cassa.
Ma è un’operazione di facciata perché le torri sono strumentali per Rai, e per questo paga a Raiway un canone di affitto contrattualmente predeterminato: cedendo una parte della sua partecipazione, Rai può ridurre il suo debito e pagare meno interessi; ma aumenta anche la quota dei ricavi di Raiway che vanno a beneficio di terzi.
Così facendo il governo apre anche alla possibilità di una fusione con EiTowers, la società delle torri ex Mediaset, controllata dal fondo F2i, e per il 40 per cento da Fininvest.
Una fusione che sarebbe vantaggiosa per F2i, e Fininvest, perché EiTowers potrebbe scaricare nel nuovo gruppo il suo maggior indebitamento (oltre 700 milioni rispetto ai 140 di Raiway), e avvantaggiarsi della maggior redditività di Raiway grazie alla generosità dell’affitto pagato da Rai.
La decisione del governo non risolve dunque i problemi strutturali del bilancio di Rai; ma permette un’ eventuale fusione che costituirebbe per F2i e Fininvest una via di uscita vantaggiosa dal business delle torri.
Crollo di Tim
Nuovi sviluppi nella saga di Tim. Dopo aver illuso per anni di poter risolvere il problema del debito insostenibile e degli esuberi cedendo a caro prezzo la Rete a un governo smanioso di creare la società Unica a controllo pubblico, il titolo è crollato quando Tim ha fornito le prime indicazioni su quanto il debito sarebbe effettivamente sceso post cessione: troppo poco, perché a comprare è Kkr, che ha obiettivi di rendimento elevati, non lo stato generoso quando si tratta di attività “strategiche”.
Il consiglio di amministrazione di Tim si è allora riunito in emergenza per spiegare al mercato perché si sbagliava: spiegazioni poco convincenti visto che le posizioni allo scoperto sul titolo sono raddoppiate, arrivando a un quinto del capitale.
Ma Tim va avanti, mettendo in vendita un altro miliardo di attività. Vende Sparkle al Governo, che offrendo meno della richiesta ha dovuto chiedere aiuto al fondo Asterion. Governo già alle prese con il rifinanziamento dei 6 miliardi di debito di Open Fiber, che indirettamente garantisce.
Tim vende anche la quota residua in Inwit, detenuta con il fondo Ardian: operazione simile a Raiway perchè Inwit gestisce le sue torri di trasmissione nel mobile.
Ceduta la rete fissa e le torri, che però dovrà continuare a pagare per utilizzarle, verrà inevitabilmente ceduto anche il Brasile, e Tim rimarrà una società di servizi in un settore fortemente concorrenziale con quattro operatori, e che cresce poco. Difficile rimanga indipendente. La saga continua.
Mps
Il Tesoro ha venduto un altro 12,5 per cento di Mps scendendo al 26,5. Una decisione che non massimizza il valore della sua partecipazione perché la quota ceduta sul mercato non incorpora il premio di controllo.
Cosa che avrebbe potuto fare collocando il 29 (e il premio di controllo senza Opa) tramite un’asta competitiva; e valorizzando così il suo residuo 10 per cento. Avrebbe vinto il miglior offerente, anche se straniero. Ma al Mef avrebbero perso la speranza di fare il banchiere nella costruzione del “terzo polo”.
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