La questione della giustizia fiscale è tornata al centro della scena con il lancio della campagna elettorale negli USA e con l’agenda della presidenza brasiliana del G20. Un accordo internazionale su un’aliquota minima di tassazione per i super ricchi consentirebbe di reintrodurre un po’ di progressività e ottenere risorse per finanziare beni pubblici, ripristinando fiducia nel modello delle democrazie liberali.
La distribuzione del reddito è tornata prepotentemente d’attualità nei giorni scorsi, imponendosi come uno dei temi che caratterizzeranno il dibattito sulla governance mondiale dell’economia nei prossimi mesi.
In primo luogo, il presidente americano Joe Biden ha annunciato un piano per ridurre il debito pubblico incentrato su di un aumento dell'imposta minima sulle società dal 15% al 21%, e su di un'imposta minima del 25% del reddito per i miliardari. L’annuncio è specialmente significativo perché è stato fatto nel tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, un momento solenne che quest’anno segna anche l’inizio della campagna elettorale per le elezioni di novembre. Non è un caso che Biden abbia deciso di chiamare i super ricchi e il mondo delle imprese, soprattutto le più grandi, a contribuire di più alle finanze pubbliche: sono infatti le due categorie che sono riuscite a scaricare la maggior parte dell’inflazione degli scorsi anni sui consumatori, sui salari e in generale sulle categorie meno abbienti.
È fortemente improbabile che il piano diventi realtà, in un Congresso dominato da un partito repubblicano radicalizzato e compatto dietro a Donald Trump e da democratici conservatori. Ma la sua portata simbolica è importante e chiarisce quali sono gli interessi che il presidente intende difendere alle elezioni di novembre. Con questa proposta l’amministrazione Biden si conferma, almeno per quel che riguarda i temi economici, la più progressista degli ultimi decenni, mostrandosi ben più coraggiosa nella protezione delle classi medie dell’iconico, ma alla fine troppo timido, Barack Obama.
Un’aliquota minima per la tassazione dei super ricchi
Il tema della giustizia fiscale, ed è questa la seconda notizia, è anche al centro dell’agenda del governo brasiliano di Lula, che nel 2024 ha la presidenza di turno del G20. Si tratta dell’istanza oggi probabilmente più significativa per il coordinamento delle politiche economiche a livello internazionale. È quindi particolarmente significativo che l’idea di reintrodurre più progressività tassando i super ricchi, di per sé non nuova, sia discussa in quella sede.
Di fronte ai ministri delle finanze del G20 riuniti a San Paolo, l’economista di Berkeley Gabriel Zucman ha perorato la causa di un sistema globale più equo, notando in primo luogo come la progressività fiscale, essendo cruciale per finanziare beni pubblici come la sanità, l’istruzione, le infrastrutture, sia uno dei pilastri su cui si reggono la crescita e il contratto sociale di democrazie ben funzionanti.
I sistemi fiscali della maggioranza dei paesi sono invece, negli ultimi decenni, diventati fondamentalmente regressivi, soprattutto per quel che riguarda le poche migliaia di super ricchi. In Francia, ad esempio, il 10% più povero della popolazione paga quasi il 50% del proprio reddito in tasse e i super ricchi meno di un terzo. Le ragioni per questa aberrazione sono ben note: la corsa sfrenata degli ultimi decenni alla concorrenza fiscale, i vantaggi offerti da molti paesi alle multinazionali e ai redditi più elevati nel tentativo di attirarli, hanno creato una moltitudine di nicchie fiscali e di possibilità per i grandi capitali di organizzarsi in modo da generare redditi imponibili bassi quando non nulli.
Proprio per evitare la concorrenza tra paesi, che consente ai grandi patrimoni (come alle multinazionali) di viaggiare in cerca di paradisi fiscali, Zucman e altri spingono per una soluzione globale, sulla falsariga dell’accordo raggiunto in sede OCSE nel 2021 sulla tassazione delle multinazionali. Per questo, l’iniziativa della presidenza brasiliana e la decisione dei ministri dell’economia del G20 di commissionare un rapporto che entri nei dettagli della proposta, sono ottimi segnali.
Al di là dei dettagli su cui occorrerà lavorare, cruciali per evitare scappatoie ed elusione, la proposta di Zucman e degli economisti dell’osservatorio sulla tassazione che dirige, su cui il G20 si pronuncerà nei prossimi mesi è quella di un tasso minimo di imposizione sui super ricchi, disegnato prendendo a modello il già citato accordo OCSE sull’aliquota minima per le multinazionali.
Essendo il reddito, per le ragioni accennate sopra, difficilissimo da determinare, la comunità internazionale dovrebbe accordarsi sul fatto che i contribuenti paghino in imposte sul reddito almeno una certa percentuale (Zucman propone il 2%) del proprio patrimonio. I vantaggi della proposta sono molteplici: in primo luogo, chi già paga elevate imposte sul reddito non avrebbe nessun aggravio, mentre sarebbe chiamato a pagare chi ha patrimoni elevati e riesce a nascondere al fisco (in modo più o meno legale) i redditi.
In secondo luogo, già oggi in molti paesi esistono strumenti per valutare l’entità del patrimonio, che andrebbero quindi solo generalizzati e armonizzati. Poi, come già per la tassazione minima sulle multinazionali, si possono ideare meccanismi per disincentivare la delocalizzazione dei patrimoni nei paesi che decidessero di non cooperare. Ancora, anche solo con un tasso basso come quello proposto da Zucman, si potrebbero ottenere introiti fiscali di centinaia di miliardi l’anno, necessari soprattutto ai paesi più poveri per finanziare il welfare, la transizione ecologica, le infrastrutture per la crescita.
Ricostruire il contratto sociale
Infine, ma certamente non da ultimo, riuscire a far contribuire i più ricchi al bene comune contribuirebbe almeno in parte ripristinare un senso di giustizia e la fiducia nel contratto sociale che si è progressivamente erosa negli ultimi anni. Come conclude Zucman parlando ai ministri del G20, «un accordo di questo tipo sarebbe nell'interesse di tutti, anche dei contribuenti più ricchi. Perché la posta in gioco non è solo la dinamica della disuguaglianza globale: è la stessa sostenibilità sociale della globalizzazione, di cui i ricchi beneficiano così tanto».
Le rivoluzioni conservatrici dei primi anni Ottanta avevano inaugurato un’era in cui la parola d’ordine era semplicemente «arricchitevi quanto più potete e pensate solo a voi stessi» (esemplificata dall’elogio dell’avidità di Gordon Gekko, nel magistrale Wall Street di Oliver Stone). Quell’era non ci ha portato prosperità né stabilità. Al contrario, viviamo oggi in democrazie malate, economie instabili e caratterizzate da livelli intollerabili di rendite e disuguaglianze. Già negli anni Trenta del secolo scorso uno degli obiettivi di Keynes, nel preconizzare l’intervento pubblico nell’economia, era stato quello di salvare da sé stesso il capitalismo in crisi e minacciato dall’ascesa dell’Unione Sovietica. I molti liberali nostrani acriticamente innamorati degli anni Ottanta e Novanta dovrebbero riflettere su quella lezione e sostenere con tutte le forze tentativi come quello della presidenza brasiliana del G20 di salvare il capitalismo soprattutto dai suoi nemici interni, ben più pericolosi di quelli esterni.
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