I risultati delle comunali nelle grandi città, pur largamente positivi per il Pd, non hanno attenuato la tendenza che lo vede elettoralmente più debole proprio nelle zone e tra le categorie socialmente meno agiate.

Questa tendenza rispecchia i caratteri dell’attuale agenda politica progressista e potrebbe essere solo acuita da un ritorno al proporzionale, che ci darebbe partiti più radicali, insieme a leggi più moderate.

Le grandi città si sono colorate di rosso, ancora di più che alle Europee, soprattutto grazie alla maggiore astensione dell’elettorato di centrodestra. A Milano c’è anche stato uno spostamento significativo di elettori da polo all’altro.

Tuttavia, proprio a Milano la correlazione tra indicatori di disagio e minore successo della sinistra (o viceversa) rimane a livelli strabilianti.

A Roma e Torino la correlazione è più debole non perché le periferie disagiate si siano spostate a sinistra, ma perché mentre a Milano anche i quartieri dell’alta borghesia hanno votato in massa per Sala, nella collina torinese o in zone di Roma come Giustiniana, Parioli, Appia antica hanno continuato ad andare relativamente meglio i candidati di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

A Torino, in particolare, risulta abbastanza netta la prevalenza di Lo Russo nei quartieri di classe media, mentre Damilano è andato relativamente meglio sia nelle zone collinari alto borghesi sia nella più disagiata periferia nord.

L’inversione

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Questo scenario è frutto di cambiamenti abbastanza recenti in Italia. L’inversione più drastica del voto di classe è avvenuta intorno al 2016. Non si tratta neppure di un fenomeno così inspiegabile, anzi è al centro di teorie ben note.

Ronald Inglehart e Pippa Norris (in Cultural Backlash, Cambridge University Press) ipotizzano che sia in corso una crescente polarizzazione tra i portatori di valori che loro chiamano “auto-espressivi” (tendenzialmente più diffusi tra persone giovani, istruite, digitalmente evolute, benestanti o comunque fiduciose di poter vivere una vita confortevole, cosmopolite, capaci di sfruttare anche a proprio vantaggio gli effetti della digitalizzazione, delle migrazioni e dell’economia globale) e i portatori di valori che chiamano “materialisti” o “di sopravvivenza” (tendenzialmente più diffusi tra persone anziane, scarsamente istruite, economicamente e socialmente disagiate, campaniliste, chiuse in un ambiente che considerano degradato anche a causa delle migrazioni o dell’economia globalizzata).

Estensioni della stessa teoria sostengono, confortati da numerosi riscontri empirici, che i primi sono attratti da partiti definiti “Gal”(Green alternative libertarian), i secondi da partiti “Tan” (Traditional authoritarian nationalist).

È facile dire, seguendo un riflesso condizionato della sinistra novecentesca, che bisognerebbe creare un’alleanza tra gli uni e gli altri. Senonché quei due tipi di elettori hanno oggi priorità molto diverse. E quello che conta in politica sono le priorità: gli obiettivi su cui ciascun partito è pronto a dare veramente battaglia, su cui non ammette dissensi interni, che stanno quindi visibilmente in cima alla sua agenda e lo differenziano dagli altri (tutti sono per la ripresa economica e l’efficienza delle burocrazie, la crescita dell’occupazione, la riduzione delle tasse su chi le paga e il contrasto alla criminalità organizzata).

Gli obiettivi oggi visibilmente in cima all’agenda progressista del Pd sono i diritti e le politiche culturali volte a promuovere il rispetto per l’orientamento sessuale e l’identità di genere liberamente scelti da ogni persona, l’accoglienza dei profughi e l’integrazione degli immigrati, il contrasto al cambiamento climatico, il multilateralismo e il rafforzamento delle istituzioni europee.

In sostanza, un esempio da manuale delle priorità di un partito Gal, esattamente come gli studenti internazionali di Science Po a Parigi o i residenti dei quartieri di classe media delle grandi città del nord Italia sono un esempio da manuale dei portatori di valori auto-espressivi.

Convincere le periferie

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Il Pd ha ovviamente in agenda anche azioni per le categorie disagiate, ad esempio attraverso la sanità e l’istruzione pubblica o le politiche sociali amministrate da comuni e regioni, con risorse che hanno un impatto positivo indiretto sui disagiati e un impatto positivo diretto su organizzazioni, professionisti, ceti medi attivi in quegli stessi campi. Mentre si è mostrato scettico riguardo a interventi che implicano trasferimenti diretti come quota 100 e reddito di cittadinanza.

Ora, lasciamo perdere per un attimo la teoria, che può apparire astratta. Ma soprattutto, non confondiamo i giudizi di valore su quali posizioni politiche siano giuste o sbagliate con l’analisi dei fatti.

Immaginatevi un tipico candidato Pd davanti a un supermercato discount di Tor Bella Monaca (periferia romana) intento a spiegare che le priorità su cui il Pd non transige sono: l’obbligo per tutte le scuole di ogni ordine e grado di celebrare la giornata nazionale contro l’omo-lesbo-bi-transfobia, il riconoscimento della cittadinanza ai minori figli di immigrati, la transizione verso una economia eco-sostenibile, il finanziamento di sanità, istruzione, ricerca, la riduzione dei danni prodotti da quota 100 e reddito di cittadinanza.

Ovviamente, nessun candidato Pd è così ingenuo da farlo, il che già dimostra a sufficienza come l’agenda del Pd a Tor Bella Monaca non si venda tanto bene.

Democrazie consensuali

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In un recente editoriale su Domani, Carlo Trigilia ha sostenuto che il Pd potrebbe recuperare i voti delle “periferie” se si adottasse un sistema elettorale proporzionale. A dire il vero non capisco come.

A parità di altre condizioni, i sistemi proporzionali spingono ciascun partito a rivolgersi a categorie sociali meglio definite e più circoscritte, rispetto a quelli maggioritari.

Per sperare di competere in una serie di collegi uninominali bisogna aggregare il consenso di almeno il 40 per cento dei votanti, proporre cioè qualcosa che possa andare abbastanza bene a tutti loro messi insieme. Per prendere seggi con il proporzionale basta parlare a una nicchia del 5 per cento o anche meno.

Se il Pd, ad esempio, dovesse risultare ambiguo per tenere insieme gli elettori “auto-espressivi” della classe media e gli elettori “materialisti” delle periferie disagiate, potranno farsi avanti altri due partiti più piccoli ma più convincenti del Pd come rappresentanti, rispettivamente, degli uni e degli altri.

D’altro canto, la maggior perdita di elettori delle “periferie” il Pd l’ha registrata proprio alle Europee che, come è noto, si svolgono con un sistema perfettamente proporzionale.

La mia percezione è che la preferenza per quel metodo abbia altre motivazioni che non saranno intaccate da nessun argomento. Per molti parlamentari attualmente in carica un sistema puramente proporzionale serve a ridurre i rischi già assai elevati di non essere rieletti al prossimo giro.

Tanti altri pensano, in buona fede, che così ci saranno partiti capaci di esprimere “esattamente” il loro punto di vista. Ad esempio, un Pd senza franchi tiratori sul progetto Zan. In effetti, per le ragioni già riferite, i sistemi proporzionali facilitano l’entrata in scena di nuovi partiti e li spingono tutti a tenere posizioni più nette, che riflettono le preferenze di specifici segmenti dell’elettorato.

Ma in questo modo si potranno formare maggioranze solo includendo uno spettro più ampio ed eterogeneo di posizioni. Su questo punto teoria e prove empiriche sono unanimi.

Arend Lijphart (Le democrazie contemporanee, Il Mulino) giudica positivamente le democrazie che chiama consensuali, quelle nelle quali per decidere bisogna tenere conto dell’opinione di tanti partiti, perché hanno la “mano ferma”.

George Tsebelis (Poteri di veto, Il Mulino) dimostra, senza esprimere giudizi, che con più partiti, su posizioni politiche tra loro più distanti, aumenta la stabilità delle politiche pubbliche. È cioè più difficile approvare leggi che si propongano di modificare radicalmente lo status quo, perché ciascuno dei partiti di maggioranza farà legittimamente valere il suo potere di veto.

In effetti, con la coalizione Ursula messa a regime, il progetto Zan, nella sua formulazione, non sarebbe nemmeno andato in aula. Non a caso, il proporzionale è da sempre preferito, a ragion veduta, da moderati e centristi. La cosa apparentemente paradossale è che a volerlo siano i sostenitori di riforme radicali.

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