Molti professionisti impiegati da aziende del nord sfruttano la policy sul lavoro agile per vivere nel Mezzogiorno. È il fenomeno del south working. Che però è frenato dal ritorno alla presenza a tempo pieno dopo la pandemia
A. viene da Napoli ed è andato a studiare a Torino. Dopo poco ha iniziato a mandare curriculum per tornare a lavorare in smart working nella sua terra facendo tantissimi colloqui, ma è stato tutto inutile: gli unici che hanno avuto esito positivo sono stati quelli nelle città del nord, dove è rimasto a lavorare. A. invece è riuscito a tornare in Sicilia cambiando completamente lavoro, facendo il Mental Coach, mentre E. lavora come Financial Controller in Coca Cola e in Sicilia torna spessissimo, avendo in azienda una politica flessibile di lavoro agile.
Il fenomeno
Il fenomeno dietro a queste storie ha un nome, south working, ed è il termine utilizzato per definire il lavoro da remoto per aziende fisicamente collocate nell’Italia del nord, svolto da casa da persone che abitano per lunghi o brevi periodi nell’Italia del sud, ma anche per chi sceglie, poi, di creare impresa nel meridione. I dati contenuti nel rapporto Svimez 2020, raccolti su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti che operavano nelle diverse aree del centro nord nei settori manifatturiero e dei servizi, raccontavano di quarantacinquemila addetti che, dall’inizio della pandemia, lavoravano in smart working dal sud per le grandi imprese del centro nord.
Per il professor Gaetano Vecchione, docente di Economia all’università Federico II e consigliere scientifico Svimez, che aveva redatto la ricerca nel 2020, il fenomeno ad oggi rimane di grande interesse e riguarda una piccola fetta di popolazione «che svolge lavori altamente qualificati e che quindi può concedersi il lusso di sfruttare lo smart working, stando in giro per il paese o per il mondo. Guardiamo con grande positività a questo fenomeno». Vecchione spiega a Domani che quello che c’è da rilevare, rispetto al periodo post Covid, è che «non c’è stata, da parte del mercato del lavoro, una risposta che abbia tenuto in vita il discorso del south working».
C’è un tema di cultura del lavoro antica: «C’è un’organizzazione molto gerarchica, con capi che vogliono vedere i loro dipendenti alla scrivania, si lavora poco per obiettivi ma molto per task operativi».
È un problema strutturale «come dimostrano anche i livelli dei salari che sono fermi da 30 anni e un mercato del lavoro che non riesce ad aggiornarsi ed evolvere: di conseguenza ha prevalso una visione più classica del lavoro: finita la parentesi Covid, le policy delle aziende e delle organizzazioni private e pubbliche, è stata quella di tenere sì in vita ancora un po’ di smart working, però meno di quanto ci si augurava». Il fenomeno del lavoro agile, dunque, «rimane una promessa inattesa, che riguarda la cultura del lavoro in senso stretto».
La testimonianza
R.F. viene da Acireale (Catania), si è trasferito al Nord per studiare ingegneria chimica al Politecnico di Milano nel 2008, laureandosi sei anni dopo. Ha trovato lavoro a Milano come ingegnere progettista subito dopo la laurea per un’azienda che lavorava per Eni, poi ha cambiato lavoro poco prima della pandemia, dato che il suo ruolo è molto richiesto dalle aziende, per cui non ha mai faticato a trovare nuovi lavori.
Con la pandemia ha provato a cercare lavoro al sud, ma quelli che trovava erano pochissimi e pagati molto meno rispetto al nord: con il primo impiego a Milano guadagnava 1.600 euro netti e al sud lo stesso lavoro veniva pagato al massimo mille euro lordi.
Ora vive a Bergamo e ha cambiato lavoro, guadagnando circa 2.500 euro al mese: di tornare al sud ci pensa ancora ma dice che il mercato del lavoro e delle imprese al sud «è totalmente fermo, il numero dei posti di lavoro offerti è indecente».
A tornare in Sicilia, ci era riuscito solo con l’avvento della pandemia: la sua società aveva tramutato subito il lavoro in ufficio con il lavoro in smart working al cento per cento, ed era rimasto ad Acireale per un anno «sono stato benissimo, il lavoro del nord con la vita al sud sarebbe il mix ideale. Se la mia azienda attuale mi proponesse di lavorare in smart working firmerei subito e tornerei al sud immediatamente».
IlfondoperilSudnontorneràIl progetto
Proprio su queste necessità si fonda il progetto di promozione sociale South Working – Lavorare dal sud Aps, che racconta a Domani Elena Militello, fondatrice e presidente del progetto, che stimola e studia il fenomeno del lavoro agile da una sede diversa da quella del datore di lavoro o dell’azienda, in particolare dal sud Italia e dalle aree marginalizzate.
Il progetto è nato nel 2020, con la prima ondata della pandemia da Covid-19, «quando mi sono ritrovata da ricercatrice dell’università del Lussemburgo a dover tornare nella mia terra, la Sicilia, a sperimentare la possibilità di lavorare da remoto ho cominciato a coinvolgere amici e conoscenti che, come me, avevano sperimentato le migrazioni intellettuali, ovvero la necessità di dover lasciare il posto in cui si è cresciuti, in particolare il sud, per trovare migliori opportunità di studio e di lavoro».
Militello e le persone con cui aveva condiviso il percorso hanno poi creato l’associazione per ridurre i divari territoriali, economici e sociali esistenti in Italia. La rete si rivolge non solo a persone che svolgono lavori facilmente remotizzabili ma anche ad un’ampia platea di soggetti che lavorano con il pc come principale strumento di lavoro anche all’interno del settore terziario: amministrazione, management, settore bancario, amministrativi delle industrie e soggetti che lavorano con le nuove tecnologie come i graphic designer e gli sviluppatori di software.
Hanno dunque deciso di lavorare sulla sensibilizzazione delle istituzioni a livello ministeriale e regionale: sull’esistenza e sulle necessità di questa classe di giovani professionisti e professioniste che vorrebbero riportare capitale umano nei territori del sud, per contribuire alla lotta contro lo spopolamento e per partecipare alla vita democratica di quei luoghi.
Non hanno scelto di perseguire il modello della remotizzazione tout court, perché incoerente «con le scelte delle grandi e piccole aziende nel post pandemia, abbiamo spinto sul favorire dei periodi di lavoro agile ogni anno, in modo tale da favorire l’aumento dei giovani professionisti nei presidi di comunità perché possano portare un calendario di incontri che possa stimolare le realtà locali».
Per quanto riguarda il capitolo sulle spese di trasporto, si nota un aumento del costo di treni e voli e pochissime aziende hanno deciso di coprire il costo degli spostamenti, che rimane completamente a carico di lavoratrici e lavoratori. In un modello ideale, sostiene Militello, «si potrebbe ipotizzare un lavoro da remoto tre settimane al mese e un incontro con il proprio team di lavoro in sede centrale per una settimana al mese».
CommercioLe pratiche
Le pratiche virtuose da mettere in campo perché cresca l’occupazione al sud, per Militello, riguardano la necessità di riportare il capitale umano in prima persona, far incontrare le persone per far nascere nuove idee: «Le persone che rientrano nel south working molto spesso rientrano per investire nelle realtà locali, in start up innovative».
Nonostante questi progetti virtuosi, per il professor Gaetano Vecchione, l’auspicio è quello di un intervento che dovrebbe vedere anche il settore pubblico protagonista: «la nostra sensazione è che ciò non sia avvenuto se non grazie a singole associazioni che hanno costruito un modello che funziona e si è inserito nei piccoli centri e nelle aree interne dove hanno creato luoghi di Coworking; ma non si è moltiplicato questo modello su grande scala».
Il problema è che questa vicenda non è a somma zero: le grandi città del nord, «non hanno alcun interesse a cavalcare questa possibilità ma, anzi, hanno tutto l’interesse a demolirla». Sussiste anche un aspetto patologico del sistema paese: «la distorsione è quella per cui tutti debbano spostarsi in una grande città per poter lavorare. Sarebbe bello che la scelta migratoria fosse indipendente dal mercato del lavoro, il lavoro è un aspetto importante della nostra vita ma non è l’unica».
Dal sud al nord c’è quindi una scelta migratoria non libera: «cinquant’anni fa questa scelta la facevano gli operai, ora la fanno i giovani: c’è una responsabilità anche delle aziende del sud che non sempre hanno quella visione che le fa dire “lo pago un po’ di più perché è in gamba e lo voglio trattenere” ma si tengono i salari bassi e poi la lavoratrice o il lavoratore si sposta dove lo pagano meglio».
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