Dopo il Kenya e dopo l’Uganda. La posizione dell’Italia nella classifica stilata dal Global gender gap report 2023 rispetto all’anno precedente è peggiorata, passando dal 63esimo posto al 79esimo su 146 paesi analizzati. Si tratta del report del World economic forum, che annualmente analizza l’evoluzione della parità di genere negli stati attraverso quattro fattori chiave: partecipazione economica e opportunità, livello di istruzione, salute ed empowerment politico.

Il rapporto di quest’anno deve ancora essere pubblicato, ma dare uno sguardo all’evoluzione che ha subito l’Italia negli anni precedenti aiuta a capire che la situazione non sta andando nella direzione auspicata. Dalla 70esima posizione del 2018, infatti, è passata alla 76esima del 2020, per poi scendere alla più recente 79esima. Questo in un contesto, quello europeo, che ha raggiunto i migliori risultati in quanto a parità di genere a livello mondiale e con un terzo dei paesi che si posiziona tra i primi 20.

Intervenire su secoli di pratiche non eque, cercando di modificare alcuni aspetti come l’accesso delle madri al mercato del lavoro, il gender pay gap e la possibilità di raggiungere anche per le donne ruoli apicali, non è semplice e comporta sforzi intensi e mirati, ma è possibile e molte aziende anche in Italia lo stanno già facendo. Indicazioni su come muoversi arrivano da Edge strategy, la prima organizzazione a certificare la parità di genere dal 2011.

«Si parte da una misurazione di dati oggettivi, sia qualitativi che quantitativi, per capire la rappresentanza, l’equità salariale, le politiche e le prassi applicate», spiega Simona Scarpaleggia, esperta di politiche di inclusione e membro del board di Edge strategy. «Non si stila una classifica, ma si forniscono indicazioni pratiche per colmare le mancanze che emergono. In seguito, poi, interviene un ente terzo che verifica che quei dati siano corretti e rilascia una certificazione valida in tutto il mondo».

Interventi positivi

Nel percorso verso il raggiungimento della parità le aziende sono chiamate ad applicare una serie di buone pratiche, che partono già dalla selezione del personale. «È possibile introdurre politiche che richiedano di avere una lista di persone candidate per l’assunzione sulla base della parità di genere, ma che tengano ovviamente sempre conto del merito», spiega Scarpaleggia.

Fondamentale poi sul luogo di lavoro è la flessibilità. Si è diffusa in particolare con la pandemia e ha dimostrato che per molti impieghi è possibile lavorare da remoto o in fasce orarie differenti. «Un’azienda deve sapere che esistono fasi diverse della vita in cui la persona ha bisogno di orari più o meno flessibili. In questo senso il part time è importante, anche se deve essere uno strumento per modulare alcune fasi senza escludere o svantaggiare persone qualificate dal sistema produttivo».

Tra gli ostacoli più ingombranti da superare c’è il carico di lavoro di cura non retribuito, in gran parte ancora sulle spalle delle donne in Italia, ma anche nel resto del mondo. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), infatti, le donne a livello mondiale nel 2018 svolgevano il 76,2 per cento del totale delle ore dedicate al lavoro di cura e familiare. E in nessun paese era (e probabilmente è) in vigore un’equa distribuzione di questo impiego tra i due generi.

Questo fattore comporta una difficoltà ulteriore nel coniugare gli impegni di vita e quelli di lavoro. In questo senso uno strumento utile secondo Scarpaleggia è la possibilità per gli uomini di stare a casa quando nasce un figlio. «Una volta solo le donne andavano in maternità, ma se ora anche gli uomini hanno la possibilità di usufruire di congedi di paternità la divisione del lavoro a casa diventa un meccanismo normale e più equo. È un’azione di sostegno alla famiglia, in cui sia padri che madri si occupano dei figli».

Ci sono interventi che funzionano, ma che implicano una svolta culturale. «Negli stati più avanzati da questo punto di vista, come i paesi scandinavi, ci sono da anni congedi parentali di lunga durata, è in vigore il concetto di condivisione degli impegni familiari e le economie sono molto più floride che altrove. I congedi sono uno strumento capace di liberare tantissime energie e di avere risvolti positivi in numerosi ambiti».

Nonostante sia riconosciuta come una delle principali misure per consentire un migliore equilibrio tra vita privata e lavorativa, per gli uomini non è ancora scontato beneficiare del congedo. Secondo i dati di Edge, anche se le organizzazioni certificate offrono in media 29 settimane di congedo di paternità, di cui otto retribuite, e 51 di congedo di maternità, di cui 24 retribuite, i padri decidono di usufruire di due sole settimane, una media di otto volte inferiore al congedo goduto dalle madri.

Donne alla guida

Le donne faticano ancora a raggiungere posizioni di leadership e la foto dei membri – tutti uomini – del cda dell’Aifa che ha creato scalpore nelle scorse settimane ne è un esempio evidente. «Ma avere sia donne che uomini in ruoli di potere permette all’azienda di godere di una visione più ampia e rispondere alle esigenze di varie persone», continua Scarpaleggia. «Senza dimenticare poi il vantaggio reputazionale, che per le nuove generazioni conta sempre di più. Unendo questi fattori, coloro che non prendono in considerazione nelle politiche l’equità di genere perdono grandi opportunità anche dal punto di vista economico, oltre che da quello etico».

Inoltre, l’applicazione delle politiche di Diversity, equity and inclusion contribuisce a ridurre il gap salariale di genere perché prevede una comunicazione più trasparente nei confronti dei propri dipendenti, oltre che un miglioramento nelle valutazioni. Negli anni Edge ha aiutato sedici aziende di undici settori diversi a intraprendere azioni per far fronte al divario di stipendio. Nel 93 per cento dei casi le organizzazioni hanno identificato l’applicazione delle policy di De&i come prioritaria per il raggiungimento di questo obiettivo.

Intersezionalità

Ma nelle società non esistono solo due sottogruppi, quello delle donne e quello degli uomini. «Ogni persona rappresenta dimensioni differenti della diversità. E in alcuni casi la discriminazione può diventare doppia o tripla». Negli Stati Uniti, ad esempio, gli uomini bianchi stanno in cima alla classifica delle persone più pagate, seguite dagli uomini ispanici, dalle donne bianche e, al fondo, dalle donne nere. Anche il livello di intersezionalità dei dipendenti può essere misurato, nel caso di Edge Strategy si utilizza Edge Plus che permette di analizzare variabili come la nazionalità, l’etnia, l’età, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e l’eventuale disabilità.

«È importante tenere conto di ogni soggettività perché ci sono situazioni in cui il combinato di diverse condizioni porta a disparità ancora più ampie». La consapevolezza delle diversità e la loro valorizzazione può essere l’inizio di un percorso che non solo è la cosa giusta da fare, ma che può diventare anche un motore capace di creare valore. E molte aziende – anche in Italia – hanno iniziato a capirlo.

© Riproduzione riservata