Le donne scelgono di non avere figli o ne hanno meno di quanti ne vorrebbero: nella popolazione femminile in età fertile, il 2023 ha infatti registrato un nuovo minimo storico delle nascite in Italia, ormai stabilmente ferme sotto le 400mila unità, con un calo del 3,6 per cento rispetto all’anno precedente.

Questi sono i primi dati dell’ultimo report Save the Children, pubblicati nel contesto di un'Italia agli ultimi posti in Europa per il tasso di occupazione femminile, con la natalità che continua a diminuire. Le statistiche raccontano anche una realtà familiare differente dalla narrazione conservatrice, con un aumento dei figli nati al di fuori del matrimonio, con la progressiva riduzione dei matrimoni stessi che ha portato alla diffusione di convivenze e altre forme familiari in tutte le fasce di popolazione; segno del fatto che la società è cambiata e con essa il concetto stesso di famiglia: più libera e meno ancorata a vecchi schemi patriarcali.

Le disparità tra nord e sud

Antonella Inverno, responsabile ricerca e analisi di Save the Children Italia, afferma che in Italia «il rischio di misure una tantum pensate ad hoc per specifici target, come le famiglie numerose o le lavoratrici dipendenti, rimane alto».

Il recente provvedimento che finanzia circa 25mila posti nella rete dei servizi educativi all’infanzia, infatti, non è ancora agli obiettivi fissati inizialmente dal Pnrr e per questo «non bisogna abbassare il livello dell’attenzione, dato che permangono forti disparità soprattutto tra il Sud e il Nord del paese».

Le regioni del Mezzogiorno, invero, continuano a posizionarsi tutte al di sotto del valore di riferimento italiano, con alcune particolarmente lontane dalla quota 100. Calabria (92,671), Puglia (92,085), Sicilia (91,050), Campania (89,474) e Basilicata (87,441). Relegate in fondo all’indice, queste regioni più di altre, scontano i mancati investimenti sul territorio che si traducono in una carenza strutturale di servizi e lavoro.

Anche la disoccupazione presenta ampie differenze tra le diverse regioni geografiche. Al Nord il tasso di disoccupazione è minimo, mentre nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione è massimo: tra coloro senza figli del 17,4 per cento per gli uomini e del 19,4 per cento per le donne. Ulteriori analisi mostrano che anche in questo caso sono le giovani donne del Sud a essere maggiormente colpite dalla disoccupazione: il 22,3 per cento tra quelle senza figli e il 24,4 per cento tra quelle con figli.

Un paese senza equilibrio di genere

Leggendo la dimensione nella sua componente di genere, capiamo quanto gli squilibri siano ancora radicati: il fenomeno delle dimissioni volontarie post genitorialità ci dice che a dimettersi sono principalmente le madri al primo figlio, entro il suo primo anno di vita. La motivazione principale è la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del bambino.

Complessivamente, le sfide legate al lavoro di cura non riconosciuto e retribuito, rappresentano il 63,6 per cento di tutte le motivazioni di convalida fornite dalle lavoratrici madri. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel 2023 era di 17,9 punti percentuali, tra le più ampie dell’Unione europea, principalmente determinata dalla minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Sebbene le donne in Italia raggiungano livelli di istruzione maggiori rispetto agli uomini, nel mercato del lavoro si trovano ad affrontare sia la segregazione orizzontale che quella verticale, il che significa che sono concentrate in determinati settori e hanno una presenza meno significativa nelle posizioni di leadership e di vertice.

Le discriminazioni verso le donne hanno diverse origini, perché sono molteplici le forme che assume la disparità di genere ed è importante sottolineare che il gender gap ha una conseguenza a lungo termine, che riguarda la disparità di genere nei redditi e nella pensione, con le donne e le loro carriere spesso frammentate; maggiormente rappresentate nelle classi di reddito da pensione più basso.

La politica

Anche quest’anno il rapporto segnala le penalizzazioni delle madri nel mercato del lavoro e gli squilibri di genere che ancora attraversano il nostro paese. In questo panorama, l’Italia non sembra aver ancora affrontato il problema nella sua complessità, agendo su più fronti e con politiche organiche, olistiche e di lungo periodo.

Servono invece politiche sistemiche di sostegno alle famiglie che offrano servizi adeguati e di qualità per la crescita dei bambini e delle bambine e per la conciliazione famiglia-lavoro. La necessità è quella di promuovere un clima culturale volto a scardinare stereotipi di genere, a favorire la condivisione della cura tra padri e madri e a costruire un modello economico e di lavoro basato sulla parità.

In un paese come l’Italia, che pone sulle spalle delle donne la gran parte del lavoro di cura, quando si parla di natalità e maternità, incredibilmente ci si rende conto che le donne non vogliono o non riescono più a fare figli.

Tutto questo mentre il numero dei consultori familiari pubblici decresce in modo preoccupante, con una riduzione delle strutture accreditate che da 3,5 ogni 10mila abitanti scende a 2,9 in Liguria e da 5,6 a 5,2 in Basilicata. Ma non bastano i dati e l’economia a spiegare il calo demografico e le scelte riproduttive di donne e uomini: avere figli è una questione anche politica, nella scelta di farli, in quella di non farli e in quella di non poterli fare, se si desiderano.

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