- È uscita un’altra inchiesta sull’università del malaffare. Quella dei concorsi truccati e dei baroni che fanno strage del merito, selezionando portaborse allevati nei loro dipartimenti e costringendo la meglio gioventù a scappare all’estero.
- Si prende un problema complesso (i concorsi nell’università, con la frustrazione che creano), lo si semplifica fino all’estremo e si mettono gli scandali sotto i riflettori.
- Da un cronico sottofinanziamento delle università derivano una serie di conseguenze che aiutano a spiegare la rabbia che esplode nei concorsi.
Ci risiamo. È uscita un’altra inchiesta sull’università del malaffare. Quella dei concorsi truccati e dei baroni che fanno strage del merito, selezionando portaborse allevati nei loro dipartimenti e costringendo la meglio gioventù a scappare all’estero. Dove le buone università, aperte e meritocratiche, la accolgono a braccia aperte. Stavolta è stato un bravo giornalista televisivo a cadere nella trappola di questo format un po’ populista che assicura un facile successo. Poco tempo fa era stato un grande quotidiano nazionale a riproporlo.
Funziona più o meno così. Si prende un problema complesso (i concorsi nell’università, con la frustrazione che creano), lo si semplifica fino all’estremo e si mettono gli scandali sotto i riflettori. Non si spiega nulla, ma si alimenta l’indignazione e la rabbia, e si mostra qualcuno su cui sfogarla: i baroni e i loro portaborse. È un meccanismo noto nelle scienze sociali. È un classico esempio di creazione di “capri espiatori organizzativi”, che forniscono una valvola di sfogo alle tensioni che si accumulano in situazioni di disagio.
L’estensione del fenomeno
Questa inchiesta televisiva, come quella precedente, ha tuttavia suscitato tantissime reazioni negative tra gli accademici. Perché? Si tratta di pure difese corporative? Forse no. Proviamo a spiegarlo con qualche numero.
Entrambe le inchieste sono partite dai concorsi truccati finiti nel mirino della magistratura. Hanno fatto capire che si tratta di fenomeni estesi, se non generalizzati. Nell’inchiesta pubblicata sulla carta stampata si è data grande evidenza al numero elevato di ricorsi fatti contro gli esiti concorsuali.
Nei primi anni dei nostri corsi insegniamo che i valori assoluti, senza una percentuale, possono essere estremamente fuorvianti. Mi sono perciò preso la briga di fare qualche verifica. Nell’ateneo di Torino, dati certi, tra il 2014 e il 2020 si sono svolti 1.540 concorsi, 24 dei quali sono stati oggetto di ricorso. Si tratta di un tasso pari all’1,6 per cento.
A livello nazionale, secondo una mia stima, su 190mila candidati passati attraverso concorsi nazionali e locali la percentuale dei ricorsi ammonta al 2,6 per cento. Si tratta di stime, ma che ridimensionano subito l’estensione del fenomeno. Si dirà che quella è solo la punta dell’iceberg. Ma così dicendo si sfugge del tutto a una discussione basata su dati fattuali e soggetta a falsificabilità.
Ciò chiarito, io ritengo che i ricorsi e gli scandali denunciati dai media non siano un buon indicatore dello stato di (buona o cattiva) salute dell’università italiana. Proviamo perciò ad aggirare l’ostacolo e poniamoci due domande:
1. Come se la sta cavando la ricerca italiana? Qualcuno li avrà pur formati quei bravi ricercatori che finiscono all’estero, o no?
2. Da dove deriva tanta rabbia e frustrazione intorno ai concorsi, soprattutto tra i più giovani?
Partiamo dalla ricerca. A giudicare dai fatti (non dal sentito dire), quella italiana non sfigura affatto nelle comparazioni internazionali. I report forniti dalla banca dati di Scopus mostrano che ci collochiamo al 7° posto mondiale per numero di pubblicazioni e all’8° per numero di citazioni.
L’ultimo rapporto Anvur evidenzia che la crescita della produzione scientifica è stata nell’ultimo decennio superiore alla media mondiale, e ciò ha consentito all’Italia di aumentare la propria quota sul totale, mentre paesi come Francia, Germania e Regno Unito la riducevano. Tre anni fa una rivista autorevole come Nature assegnava alla ricerca italiana un notevole, e crescente, livello di eccellenza. Produciamo un buon numero di articoli a forte impatto. La percentuale di pubblicazioni nazionali che si colloca nel 10 per cento di quelle più citate a livello mondiale supera del 12 per cento la media europea.
Non sarà tutto oro quel che luccica ma, anche depurato dal fenomeno delle autocitazioni, chi ha visto i curricula dei nostri giovani ricercatori, sa che la qualità e l’internazionalizzazione del loro profilo sta migliorando. Possibile che queste prestazioni siano il prodotto di una casta di baroni e di una schiera di portaborse? Si dirà, ma i nostri atenei non sono mai tra i primi 100 nelle classifiche internazionali. Vero, ma questo dipende da quanto e come li finanziamo. Aggiungo che la loro qualità media non è affatto disprezzabile. Tra le prime 500 università al mondo ce ne sono 22 italiane: un numero più alto di quelle francesi e spagnole. Questi dati sono tanto più sorprendenti se considerati alla luce degli scarsi investimenti fatti nel nostro paese sulla formazione terziaria.
L’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria dei paesi Ocse per il finanziamento delle università, spendendo appena lo 0,9 per cento del Pil contro una media dell’1,4 per cento (fonte Oecd, Education at a glance 2021). Il numero di docenti e ricercatori universitari, in rapporto alla popolazione, è la metà del dato medio europeo.
Sottofinanziamento cronico
Da questo cronico sottofinanziamento derivano una serie di conseguenze che aiutano a spiegare la rabbia che esplode nei concorsi.
Ci sono moltissimi giovani ricercatori che non riescono a entrare nell’università italiana (soprattutto donne). Chi ce la fa, vi accede con stipendi bassi e dopo lunghissimi anni di precariato con borse di studio di pura sopravvivenza. Di conseguenza l’età media degli accademici italiani è una delle più alte in Europa. Quasi la metà hanno più di 50 anni, appena il 5 per cento ne ha meno di 35.
Il sottoreclutamento genera un drastico aumento del rapporto docenti-studenti, ancora una volta tra i più alti in Europa, che riduce la qualità della didattica e provoca un enorme sovraccarico di lavoro. Questo enorme stress viene ulteriormente complicato dalla burocratizzazione della valutazione (oggi si scrivono più pagine di verbali che di saggi scientifici). Mi fermo qui anche se molto altro ci sarebbe da dire sull’iniquità di questo sistema, che permette di sopravvivere solo a chi ha le spalle più solide. Noi accademici siamo altrettanto indignati e arrabbiati che i nostri giovani.
Per fortuna si intravede uno spiraglio di luce. Finalmente, maggiori finanziamenti stanno arrivando. L’università italiana oggi ha una opportunità straordinaria. Gli accademici dovranno fare del loro meglio per non sprecarla. Il giornalismo italiano ci darà una mano, raccontando anche l’altra università? Narrando ciò che per tanti anni non si è voluto vedere? Magari pensando all’entusiasmo dei nostri giovani ricercatori? Vogliamo disperderlo mandandoli all’estero, perché nelle università italiane sono tutti corrotti? Oppure sprecarlo nella rabbia scatenata contro i draghi di carta: i baroni? Pensateci. Non si vive di soli scoop e di like. Buon lavoro a tutti noi.
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