Le barriere all’import promesse da Trump rischiano di frenare la già asfittica crescita europea. I rischi per l’Italia di una possibile ripresa dell’inflazione e dell’aumento dei tassi d’interesse
La pazza giornata delle Borse europee, che nella mattinata di ieri hanno salutato a suon di rialzi le notizie americane per poi chiudere in rosso profondo, dicono molto delle incognite sospese sul futuro del Vecchio Continente all’alba della nuova era di Donald Trump.
Non è affatto detto che i proclami trumpiani di questi mesi di campagna elettorale si traducano presto in concreti atti di governo, ma intanto basta l’effetto annuncio per gettare nello sconforto i mercati e in generale i vertici di gran parte delle grandi aziende europee.
I dazi promessi
Solo poche settimane fa, Mario Draghi ha lanciato l’ennesimo allarme sulla perdita di competitività della Ue nei confronti di Usa e Cina. Un divario che rischia di allargarsi a dismisura per effetto dell’attuazione, anche parziale, del Vangelo economico predicato da Trump.
I dazi, prima di tutto. Il nuovo inquilino della Casa Bianca promette di varare una tariffa del 10 per cento per tutte le merci in entrata negli Usa, tariffa che arriverebbe al 60 e per cento e anche di più per l’import di marca cinese.
A detta di tutti gli esperti questo provvedimento avrebbe due effetti. Il primo diretto, visto che renderebbe meno competitivi i prodotti che arrivano dall’Unione. L’altro indiretto, perché finirebbe per aumentare la pressione di Pechino verso i nostri mercati, nel tentativo di trovare approdi alternativi a quelli americani.
Per l’economia di paesi europei come l’Italia e la Germania, che prosperano (o hanno prosperato) in buona misura grazie all’export, il trumpismo si tradurrebbe in un incubo, sotto forma di riduzioni di ricavi e profitti per migliaia di aziende grandi e piccole. Tutto questo con buona pace di politici come Matteo Salvini che si dipingono come difensori di chi produce e allo stesso tempo inneggiano alla vittoria del loro amico Donald.
Effetto deregulation
Un altro punto fermo della politica del nuovo presidente è la deregulation spinta in tutti i settori dell’economia, per abbattere le barriere che limitano la crescita delle imprese a stelle e strisce. In parole povere, questo significa stop alla legislazione antimonopolistica che andrebbe a colpire i giganti del digitale, come pure a molti vincoli in campo ambientale.
Di conseguenza aumenterebbe il vantaggio competitivo delle imprese americane nei confronti dei concorrenti europei, che invece sono obbligati a rispettare norme ben più stringenti.
Più che probabile, quindi, che la campagna già in corso da mesi contro il Green Deal da parte delle destre e dagli industriali prenderà d’ora in avanti ancora più vigore.
Fisco all’americana
Sul fonte del fisco la musica è più o meno la stessa. Trump promette di ridurre ancora l’aliquota massima sui redditi d’impresa, già tagliata dal 28 al 21 per cento durante il suo primo mandato presidenziale e ora destinata, dice lui, a scendere ancora fino al 15 per cento. Molto meno dei prelievi d’imposta correnti nella maggior parte degli Stati Ue.
Si capisce, allora, perché gran parte degli analisti adesso teme che le previsioni di crescita del Pil, già nella fascia dello zero virgola per tutti i grandi paesi europei, finiranno molto probabilmente per essere riviste al ribasso.
Come se non bastasse, l’elezione di Trump ha risvegliato anche timori di un ritorno dell’inflazione, timori che, in verità, non erano mai svaniti del tutto. A fornire il carburante necessario a una ripresa della crescita dei prezzi potrà essere anche l’aumento delle quotazioni del dollaro sull’euro, con il biglietto verde destinato a diventare più forte per effetto dell’aumento del differenziale di crescita tra gli Stati Uniti e l’Europa.
Già ieri la valuta Usa ha guadagnato terreno su quella europea, ma la tendenza potrebbe rafforzarsi nei prossimi mesi. Anche la prospettiva di una discesa costante dei tassi d’interesse viene ora messa in dubbio da molti analisti.
Le riforme trumpiane dovrebbero infatti far crescere il già debordante debito pubblico americano. Questo significa che il governo di Washington sarà costretto a piazzare molti più titoli del previsto garantendo anche rendimenti più elevati per attirare investitori.
Tassi e inflazione
Questa evoluzione dei mercati, unita a una possibile ripresa dell’inflazione, potrebbe aprire le porte a un aumento del costo del denaro, una prospettiva tutt’altro che rosea per un paese ad alto debito come l’Italia.
Non per niente, i tassi a lungo termine dei Treasury bond americani a 10 anni sono in netto rialzo ormai da più di un mese. Oggi, giovedì 7 novembre, è in programma una riunione della Fed che quasi certamente deciderà un nuovo taglio dei tassi dopo quello varato in settembre.
D’ora in poi, però, le autorità monetarie dovranno tener conto delle nuove possibili spinte inflazionistiche. D’altra parte, Trump ha già lasciato intendere che farà di tutto per convincere il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, a proseguire, possibilmente accelerando, sulla strada di un ribasso dei tassi.
In gioco, tra l’altro, c’è la tradizionale indipendenza della Fed, un altro tabù che il presidente rieletto potrebbe violare.
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