«Vorremmo fare il possibile per evitarlo. Ma se costretti ci vendicheremo», è la frase che più ha sorpreso del discorso alla plenaria del parlamento europeo della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Ha spiegato qual è la strategia europea di reazione ai dazi reciproci che il presidente Donald Trump imporrà, da mercoledì 2 aprile –  in quello che è stato definito Liberation Day –  a tutti i paesi che, a giudizio della Casa Bianca, non hanno una negoziazione «equa» con gli Stati Uniti. Dove colpirà esattamente Trump? Soprattutto sui “Dirty 15”, cioè sul 15 per cento delle nazioni che rappresentano la maggior parte del volume di scambi statunitensi. Ma non sappiamo esattamente quali siano, questi paesi.

Il discorso

La presidente della Commissione ha fatto il punto della situazione: «L'amministrazione statunitense ha annunciato un aumento del 25 per cento delle tariffe sulle importazioni di acciaio, alluminio, automobili e componenti per auto. I prossimi settori ad affrontare le tariffe saranno i semiconduttori, i prodotti farmaceutici e il legname. E domani (oggi per chi legge) ci aspettiamo un altro annuncio, con le cosiddette tariffe "reciproche" che si applicheranno immediatamente a quasi tutti i beni e a molti paesi del mondo».

Dunque, nello specifico resta ancora da capire come si declinerà il Liberation Day americano, anche se Trump ha detto: «Saremo gentili», quasi un ossimoro. Perché, spiega un modello di previsione realizzato dalla Aston University del Regno Unito e pubblicato dal Financial Times, lo scenario peggiore – ovvero quello di dazi al 25 per cento su tutte le imposizioni – provocherà un impatto devastante sull'economia mondiale, con 1,4 trilioni di dollari di extra costi, che si abbatteranno sui prezzi finali al consumo e, il paese più colpito di tutti, saranno gli Stati Uniti. La guerra tariffaria di Trump «avrebbe effetti simili alla guerra commerciale del 1930, che aggravò la Grande Depressione. L'impatto peggiore, per altro, lo subirebbero proprio gli Stati Uniti, in termini di calo del benessere economico e aumento dei livelli inflazionistici», argomenta Jun Du, professore di economia all'Aston University.

Tornando all'Europa, nel suo discorso Von der Leyen ha tenuto a chiarire che non è stata l'Europa a dare inizio a questo conflitto: «Ma se necessario, abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per proteggere la nostra gente e la nostra prosperità. Abbiamo il più grande mercato unico al mondo. Abbiamo la forza di negoziare. Abbiamo il potere di respingere». La strategia dell'Europa, sarà quella di attendere l'emanazione dei nuovi dazi Usa, osservarne l’effetto, ed elaborare una risposta. E parallelamente, sfruttare la conseguente crisi del commercio internazionale per rilanciare il mercato unico europeo.

Trump distrugge l’Europa

Ma non sarà facile percorrere questa direzione perché, come spiega a Domani Marco Lossani, docente di Economia Internazionale alla Cattolica di Milano: «Le strategie di Trump colpiscono i paesi Europei in modo diverso l'uno dall'altro. I settori maggiormente gravati dalle tariffe - dall'automotive al legname, dai semiconduttori alla farmaceutica - insistono con pesi e misure diversi nei vari paesi europei. Dunque, Trump con una politica simmetrica, colpisce in modo asimmetrico i vari stati europei, creando fra questi ultimi una forte divisione. Se ci fosse uno shock omogeneo, allora ci potrebbe essere una risposta unitaria da parte degli stati membri, invece la risposta non può essere concordata all'unisono perché il livello di aggressione è diverso da stato a stato. Questo è il motivo per cui sarà difficile offrire una risposta comune ed europea ai dazi di Trump». Per altro, in un’analisi di Bloomberg, l’Italia sarebbe fra i paesi più a rischio.

Se così fosse, quello presentato da Ursula von der Leyen, più che un piano sarebbe un auspicio. La presidente ha auspicato il rafforzamento del mercato unico e l'abbattimento delle tante barriere commerciali che ancora ci sono fra i 27 stati. «Secondo il Fmi, le barriere del mercato interno europeo equivalgono a una tariffa del 45 per cento per la produzione e del 110 per cento per i servizi», ha detto e ha citato Mario Draghi che a sua volta chiama gli stati all'unione per battere le incertezze generali. In effetti, i primi a rompere le fila della risposta comune sono proprio gli italiani.

Italici in ordine sparso

La settimana scorsa Giorgia Meloni, usando il megafono di un'intervista al Financial Times, ha inviato la commissione europea a non rispondere con altri dazi, perché «È infantile scegliere fra Trump e l'Ue».

Oggi il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, è tornato sull’argomento, in un'intervista al Corriere della Sera, dicendo che «sui dazi Usa, l'Europa deve negoziare, ma no a controdazi. Gli Stati Uniti saranno sempre nostri alleati», per poi rincarare la dose: «Contromisure dell'Ue? Ci faremmo male da soli». E così si va in ordine sparso alla corte di re Trump: il numero uno di Stellantis, John Elkann, lunedì è stato ricevuto dal presidente della Casa Bianca per discutere la sua delicata situazione di costruttore di auto americane, per lo più in suolo canadese e messicano. Elkann che a gennaio aveva donato un milione di dollari al fondo destinato alle cerimonie inaugurali del presidente Trump. Ed Elkann che è entrato nel cda di Meta, il colosso di Facebook nelle mani del neo trumpiano Mark Zuckerberg.

Anche l'amministratore delegato del caffè Illy, Cristina Scocchia, ha dichiarato di star valutando di «trasferire parte della produzione negli States». Che poi, a ben vedere, se i chicchi di caffè – ma così come qualsiasi semi lavorato non prodotto interamente negli Usa – sono importati da un paese, verrebbero comunque investiti dalla tagliola dei dazi. Ma ormai, ogni tentativo di valutare con razionalità e regole di mercato consolidate le azioni trumpiane è esercizio vano.

Volendo ben vedere, anche la mossa tedesca di farsi un piano di riarmo da mille miliardi in dieci anni, va nella stessa direzione dell'ognuno per sé e dio con tutti, piuttosto che in quella del tutti per uno, uno per tutti che Mario Draghi e Ursula von der Leyen si sgolano a diffondere.

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