- Mentre i greci vanno alle urne, si moltiplicano i commenti sul successo dell’economia dopo la cura dell’austerità e delle riforme: crescita e capitali stranieri sono tornati, le esportazioni esplodono
- Dietro alle paillettes si cela un quadro molto differente: i capitali stranieri non stanno portando crescita della produttività ma precarizzazione del lavoro.
- La disuguaglianza esplode, le esportazioni si basano sulla compressione della domanda domestica.
Oggi in Grecia si vota per le elezioni politiche. I due partiti che si contendono l’elezione sono il partito conservatore Nuova Democrazia, del premier uscente Mitsotakis, seguito nei sondaggi dalla sinistra di Syriza, guidata da quell’Alexei Tsipras che nel 2015 aveva, da primo ministro e senza successo, provato ad opporsi ai programmi della Troika. Si vota con sistema proporzionale e sbarramento al 3%. Nel caso probabile in cui non fosse possibile formare un governo di coalizione, si tornerebbe a votare in luglio (questa volta con un premio di maggioranza al primo partito).
Nelle scorse settimane molti commentatori hanno parlato di rinascita della Grecia, che tra il 2010 e il 2015 si era trovata a più riprese sull’orlo della bancarotta, rischiando di uscire dall’eurozona. Un lungo rapporto del Financial Times nei giorni scorsi partiva dalla notizia di un possibile upgrade del debito greco, che dal 2010 ha uno status di titoli spazzatura, per dare un quadro piuttosto positivo della situazione del paese.
Alcuni numeri sembrano effettivamente raccontare la storia di una rinascita clamorosa. Con una crescita dell’8,4% nel 2021 e del 5,9% nel 2022, la Grecia è stato uno dei paesi europei che sono usciti meglio dalla pandemia, e dovrebbe continuare a fare meglio della media dell’eurozona anche nel 2023 e nel 2024. Con la crescita è tornata l’occupazione e, sia pure ancora alto, al 10% il tasso di disoccupazione è lontano dal picco del 22%. Le finanze pubbliche, il tallone d’Achille dell’economia greca, migliorano rapidamente: nel 2022 la Grecia ha avuto un sia pur piccolo avanzo di bilancio primario (vale a dire la differenza tra entrate e spese del settore pubblico al netto della spesa per interessi). Dopo essere esploso oltre il 200% del Pil nel 2020, il debito pubblico greco è diminuito al suo livello più basso dal 2012, favorito anche da un'alta inflazione. Questo, insieme ad un settore bancario finalmente in salute (nei bilanci delle banche, i prestiti inesigibili sono passati dal 50% al 7% tra il 2016 e oggi), contribuisce a delineare una situazione di relativa stabilità finanziaria. A completare il quadro, l’esplosione delle esportazioni, il ritorno dei capitali stranieri dopo la fuga del 2010, il turismo tornato ai livelli pre-pandemici.
Dietro alle paillettes, squilibri e povertà
Ma come spesso succede, dietro alle paillettes si nasconde una storia meno pirotecnica, che mostra come le cicatrici di un decennio di politiche di austerità siano ancora tutte presenti. Così, Banca centrale greca ci informa che il boom di investimenti diretti esteri (più di sette miliardi nel 2022, il numero più alto da quando la grandezza è monitorata), è principalmente dovuto all’acquisizione o la privatizzazione di imprese già esistenti, o ancora (il 30%) l’acquisto di beni immobiliari da parte di residenti stranieri. Certo, le acquisizioni e le privatizzazioni potrebbero almeno in linea teorica portare ad una maggiore efficienza. Ma è probabile che la costruzione di nuova capacità produttiva e quindi gli effetti del boom di investimenti esteri sulla crescita futura saranno limitati se non addirittura trascurabili. A titolo di esempio si può portare l’acquisizione del porto del Pireo da parte del gigante cinese Cosco; salutata nel 2016 come un’operazione che avrebbe portato a maggiore efficienza e modernità nel settore nevralgico del trasporto navale, si è invece risolta in scarsi investimenti (che pur erano stati promessi in occasione della vendita) e precarizzazione del lavoro.
Questo ci porta alla seconda nota dolente, forse il più drammatico atto d’accusa nei confronti delle politiche degli ultimi dieci anni: l’aumento della povertà, della disuguaglianza, della precarietà. Il Financial Times cita il capo economista della Banca centrale greca per cui il maggior successo risiede nelle esportazioni, aumentate del 90% dal 2010, contro il 42% dell'eurozona. È un’affermazione comprensibile, alla luce del passato recente: nei primi anni del secolo la Grecia ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, importando molto più di quanto non esportasse e indebitandosi in modo insostenibile. Di fatto, anche se inizialmente si puntò il dito conto i magheggi dei governi sui conti pubblici, a far scoppiare la crisi non fu il debito pubblico ma quello estero.
La compressione della domanda domestica è una strategia perdente
Tuttavia, il capo economista della Banca di Grecia omette di dire che l’aumento delle esportazioni non è frutto di maggiore produttività, di una ristrutturazione dell’economia, di maggiore valore aggiunto dell’industria greca. Gli avanzi commerciali sono stati ottenuti semplicemente riducendo i salari e reprimendo la domanda interna. I salari medi in Grecia sono diminuiti di oltre il 25% in termini reali dal 2008, più del PIL (-20%). Il calo dei salari e delle prestazioni sociali e la riduzione dei servizi pubblici, vittime della scure dell’austerità, hanno portato ad una diminuzione diffusa dei livelli di vita e allo scivolare di molte famiglie sotto la soglia di povertà. L’inflazione ha contribuito ad aumentare i divari di reddito, colpendo gli strati più deboli della popolazione già messi in difficoltà negli anni precedenti. Le esportazioni, quindi, sono venute a colmare il crollo della domanda interna e non dovrebbero essere interpretate come una success story ma più correttamente come il sintomo di una società in sofferenza.
Non è solo la Grecia, peraltro, ad aver aumentato le esportazioni riducendo salari reali e consumi interni. La tendenza ad andare a cercare la crescita nelle esportazioni e non nella domanda domestica, lo spostamento della pressione fiscale dal capitale al lavoro, il sostegno ai redditi più elevati nella (vana) speranza che questi siano investiti e portino a maggiore crescita, la ricerca della competitività nella riduzione dei costi e non nell’aumento della produttività, sono una costante nelle politiche economiche europee dello scorso decennio. Uno degli effetti più perniciosi del decennio perduto dell’eurozona è stato proprio quello che ho chiamato la germanizzazione dell’eurozona: una dipendenza crescente dalle esportazioni per crescere. Una strategia che rende le nostre economie strutturalmente fragili e soprattutto vulnerabili alle evoluzioni geopolitiche di un mondo sempre meno stabile.
Più queste strategie si generalizzano più diventano inefficaci, in una specie di corsa al ribasso a chi comprime di più salari e domanda interna. Qualche giorno fa l’economista Michael Pettis notava le contraddizioni di un sistema commerciale globale in cui l'abilità di un paese a esportare dipende dalla soppressione della domanda interna: l'espansione del commercio porta a una domanda globale più debole, contribuendo insieme ad altri fattori come l’invecchiamento della popolazione, la disuguaglianza, l’incertezza geopolitica, alla stagnazione secolare, una crescita cronicamente debole.
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