- Invece del trionfo della modernità immaginato dal politologo Francis Fukuyama, si vedono segnali sempre più evidenti di una disarticolazione dei suoi aspetti centrali. Un’insorgenza caotica, ma non per questo meno distruttiva, contro la globalizzazione dell’economia, e un malessere diffuso proprio in quei paesi.
- L’ordine che la democrazia realizza all’inizio del Ventunesimo secolo è quello dell’egoismo, non quello basato sull’eguaglianza che era sin dall’inizio presente nel significato del termine.
- La democrazia ha un futuro soltanto se trova un nuovo punto di equilibrio tra forma di governo e ideale politico, tra l’ordine dell’egoismo e quello dell’eguaglianza.
Nel decennio che segue la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione sovietica si era diffusa la convinzione che la democrazia fosse ormai prossima a raggiungere il suo massimo livello di espansione. Alla famiglia delle democrazie si sarebbero aggiunti, con i paesi dell’ex blocco sovietico, anche molti di quelli in via di sviluppo, destinati ad aprirsi progressivamente non solo agli scambi internazionali, ma anche a forme di governo rispettose dei diritti civili e della volontà popolare.
La profezia hegeliana della “fine della storia” – nella rilettura che ne aveva proposto Francis Fukuyama, attraverso il filtro di Kojeve – sembrava sul punto di realizzarsi. Visto che la formulazione si presta ad essere fraintesa, vale la pena di ricordare che per Fukuyama la “fine della storia” non comportava affatto l’uscita dell’umanità dal dominio della contingenza.
La storia intesa come “sequenza di eventi” non sarebbe cessata, ma essa avrebbe avuto luogo sullo sfondo di un mondo ormai uniforme sul piano delle forme di vita e di organizzazione politica. Con l’affermazione finale della democrazia liberale sul totalitarismo sovietico il mondo intero sarebbe approdato alla fase matura della modernità.
L’ipotesi di Fukuyama aveva sin dall’inizio suscitato perplessità nell’ambiente accademico, ma è soltanto nei primi anni del nuovo secolo che le voci dissenzienti cominciano a farsi più numerose. Da allora la tesi della fine della storia è apparsa sempre meno plausibile alla luce di eventi che si rivelano ben più di una semplice increspatura delle acque tranquille del senso comune liberale articolato da Fukuyama.
La modernità
A partire dall’attacco alle torri gemelle di New York nel 2001, si susseguono le guerre in medio oriente, l’ascesa della Cina (che rifiuta esplicitamente la liberaldemocrazia come modello politico), la crisi finanziaria che riporta in primo piano il problema delle diseguaglianze strutturali generate dal capitalismo, e infine la pandemia, e la guerra in Ucraina.
Invece del trionfo della modernità immaginato da Fukuyama, si vedono segnali sempre più evidenti di una disarticolazione dei suoi aspetti centrali. Un’insorgenza caotica, ma non per questo meno distruttiva, contro la globalizzazione dell’economia, e un malessere diffuso proprio in quei paesi che, nello schema di Fukuyama, avevano raggiunto per primi il traguardo, come gli Stati Uniti e il Regno Unito.
La vittoria della Brexit e l’elezione di Donald Trump, con tutto quello che ha provocato nella politica statunitense, sono difficili da ridurre a mere anomalie in un processo lineare verso un’epoca di prosperità e progresso.
Invece dell’ordine liberale il “nuovo mondo” che si annuncia sembra avere i tratti poco rassicuranti dell’epoca della rabbia descritta da Pankaj Mishra (The Age of Anger, Allen Lane, Londra 2017) o del disordine globale paventato da Helen Thompson (Disorder. Hard Times in the 21st Century, Oxford University Press, Oxford 2022).
In questa nuova prospettiva sono in molti a porsi nuovamente la domanda che Norberto Bobbio si era posto, in un clima del tutto diverso, prima della caduta del muro di Berlino: quale futuro ha la democrazia? In realtà, come mostra il precedente di Bobbio, questa è una domanda cui non è possibile rispondere se non si cerca di comprendere meglio cosa sia stata la democrazia nel corso della sua lunga storia, a partire dall’esordio, casuale e poco promettente, nell’Atene del sesto secolo, e in seguito alla sua affermazione nell’età moderna.
Natura ambigua
Vale la pena di chiedersi se la crisi di oggi non sia in parte anche il risultato delle tensioni interne di un processo che non era il risultato di un progetto dotato di una sua irresistibile necessità (il dispiegarsi della ragione di Hegel, cui si era ispirato Fukuyama).
Un buon punto di partenza per questo esame di coscienza sono, a mio avviso, le riflessioni dello storico del pensiero politico John Dunn, esposte in Setting the People Free. The Story of Democracy (Atlantic Books, Londra 2005).
Secondo Dunn la democrazia ha, sin dall’inizio, una natura ambigua, essa presenta due aspetti che non si armonizzano spontaneamente. Da un lato una forma di governo, che si articola in modo diverso nel corso della storia. Dall’altro un ideale di eguaglianza, un valore politico, caratterizzato in modo vago, ma dotato di una straordinaria presa sull’immaginazione.
Nella sua prima apparizione nella Grecia antica, la democrazia come forma di governo è la soluzione pragmatica a un conflitto sociale, che vede contrapposti i grandi e i piccoli proprietari, che sentono minacciata la propria autonomia se si trovassero a perdere il controllo dei propri fondi agricoli.
Attribuire al popolo, riunito nell’assemblea, il governo della comunità politica, era un modo per mettere sotto controllo questo conflitto dagli effetti potenzialmente devastanti per l’ordine sociale, e garantire la città contro i pericoli contrapposti della tirannide e dell’anarchia.
L’autogoverno senza rappresentanza è però un modello che può funzionare sono in società molto piccole e omogenee, come era appunto quella ateniese. Ecco perché quando si affaccia nuovamente alla storia del mondo, nel XVIII secolo, la democrazia si reincarna nella forma di un sistema rappresentativo.
Democrazia senza eguaglianza
Questa è anche la natura della democrazia liberale trionfante di cui parla Fukuyama. Per Dunn in questo modello «ciò che intendiamo per democrazia non è che governiamo noi stessi. Quando parliamo o pensiamo a noi stessi come viventi in una democrazia, ciò che abbiamo in mente è qualcosa di piuttosto diverso. Ovvero che il nostro stato, e il governo che fa così tanto per organizzare le nostre vite, trae la propria legittimità da noi, e che noi abbiamo una ragionevole possibilità di riuscire a costringere entrambi a continuare a farlo».
Secondo Dunn, la democrazia rappresentativa si afferma anche perché essa si rivela la forma di governo che meglio si adatta ad accompagnare in modo ordinato lo sviluppo economico, e un sistema di produzione capitalistico.
L’ordine che essa realizza all’inizio del Ventunesimo secolo è tuttavia quello dell’egoismo, non quello basato sull’eguaglianza che era sin dall’inizio presente nel significato del termine. Questa tensione è già emersa in passato, nella turbolenta storia della democrazia moderna, e si affaccia nuovamente oggi, in modo drammatico, nelle società occidentali.
La democrazia ha un futuro soltanto se trova un nuovo punto di equilibrio tra forma di governo e ideale politico, tra l’ordine dell’egoismo e quello dell’eguaglianza.
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