Le nuove misure introdotte per sostituire il Reddito di cittadinanza lasciano scoperti dagli aiuti soprattutto stranieri in povertà e famiglie monocomponenti. Flop anche per i corsi di formazione e accompagnamento al lavoro. I dati del primo rapporto Inps
A gennaio la ministra del Lavoro Marina Calderone, commentando i dati della Banca d'Italia, secondo cui le misure di sostituzione del Reddito di cittadinanza (Rdc) avrebbero ridotto il numero dei beneficiari, si era detta «non affatto convinta dell'analisi fatta».
Il primo rapporto Inps sull’Assegno di inclusione (Adi) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) ha però confermato che la platea dei potenziali richiedenti si è dimezzata rispetto a luglio 2023, mentre l’indigenza sembra invece aumentare.
Secondo le statistiche Istat per il 2024, l’anno scorso gli indicatori della povertà assoluta avrebbero, infatti, raggiunto «livelli mai toccati negli ultimi 10 anni», per un totale di 5,7 milioni di persone. Rispetto a dieci anni fa, gli individui poveri sono 1,6 milioni in più, distribuiti in quasi 700mila famiglie.
La diminuzione degli aventi diritto alle misure di sostegno dipende dalle nuove regole di accesso introdotte, con un risparmio di quasi un miliardo di euro rispetto ai vecchi strumenti. Ad essere tagliati fuori, però, sono alcuni gruppi fragili della popolazione, che prima dell’abolizione del Reddito, nelle stesse condizioni di svantaggio di oggi, percepivano invece aiuti dallo Stato.
L’occupabilità dei richiedenti
L’Adi e l’Sfl sono le due misure nazionali di contrasto alla povertà e di attivazione al lavoro sulla base della situazione finanziaria dei richiedenti. I due strumenti hanno sostituito l’Rdc, definitivamente abolito dal 1 gennaio 2024.
L’Adi consiste in un sostegno economico per chi ha un basso reddito e ha almeno un membro del proprio nucleo familiare con più di 60 anni, minore oppure con disabilità. L’assegno è composto da un’integrazione del reddito familiare fino a euro 6.000 annui; a questo importo può poi essere aggiunto un “rimborso” affitto fino ad un massimo di euro 3.360 annui.
L’Sfl, invece, prevede la partecipazione a progetti di formazione e accompagnamento al lavoro per chi è in condizione di povertà ma, secondo la definizione del governo, sarebbe “occupabile”. Chi partecipa alle iniziative di orientamento riceve, inoltre, un contributo economico di 350 euro mensili.
«Chi non può lavorare continuerà a essere aiutato. Chi ha trent'anni, non ha disabili a casa, non ha problemi, non ha minori a carico può lavorare e rifiuta di andare a lavorare è giusto che non venga più mantenuto a spese dei cittadini italiani», aveva detto a luglio il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini.
I percorsi formativi di lavoro, però, non sembrano ancora decollare. Alcune regioni del Centro Sud, con livelli di disoccupazione generalmente più alti rispetto al resto della penisola, sono molto indietro nell’avvio dei corsi. Al Nord e al Centro, invece, si compongono le classi con difficoltà perché il numero di iscritti è spesso troppo basso.
In alcuni casi sono stati registrati anche pesanti rallentamenti nell’invio delle indennità. A maggio la Cgil e la Inca Abruzzo-Molise hanno denunciato centinaia di ritardi nei pagamenti a chi, prima destinatario dell’Rdc, si era iscritto ai corsi di formazione, ma non ha poi ricevuto nessun contributo.
I numeri dell’Sfl risultano decisamente sotto quelli stimati dal governo, che a dicembre prevedeva sarebbero state circa 322mila le famiglie italiane a ottenere questo tipo di aiuto.
I dati dell’Adi, invece, sono inferiori non solo a quelli prospettati da Calderone, ma anche da quelli del Reddito di cittadinanza. Del milione e 200-300mila famiglie che percepivano un supporto economico un anno fa, a maggio se ne registrano solo 700mila.
Gli stranieri in povertà
Se i beneficiari delle misure sono diminuiti notevolmente tra le famiglie italiane, con una riduzione del 40 per cento circa, tra quelle straniere il calo tocca circa il 66 per cento.
Nonostante il requisito di residenza sia stato allentato da dieci a cinque anni, agevolando teoricamente l’accesso all’assegno, sono tutte le altre regole all’Adi ad essere più restrittive per le persone in condizione di povertà, ma non italiane.
Il nuovo requisito dell’età esclude il 68 per cento degli stranieri nel paese, che si trova infatti nella fascia di età tra i 18 e i 60 anni, i due confini anagrafici previsti dall’Adi per considerarsi potenziali beneficiari.
È, però, l’abbassamento della soglia reddituale per le famiglie in locazione, da 9mila euro circa a 6mila, a tagliare fuori la stragrande maggioranza delle famiglie straniere in povertà.
Il 75 per cento di loro vive in case in affitto, rispetto alla percentuale del 32 dei soli italiani, composta per lo più famiglie di recente costituzione o monogenitore ma, soprattutto, da persone sole.
Essere single e essere al Nord
Sono, infatti, proprio le famiglie monocomponenti le più escluse dall’assegno. Considerando poi che in Italia le persone sole occupano il primo posto come tipologia familiare, la fetta di popolazione senza sussidi diventa importante.
A dicembre i single con Rdc erano circa 319.846, pari al 43,99 per cento del totale degli aventi diritto. A maggio quelli che percepiscono l’Adi scendono a 214.763.
Le famiglie monocomponenti vivono, inoltre, principalmente nel nord-ovest e nell’Italia centrale, in cui si sta registrando un aumento del costo della vita e della povertà individuale, con un’incidenza del 9 per cento nel 2023 rispetto all’8,5 dell’anno precedente.
Anche se poi si riuscisse ad ottenere l’assegno, il sussidio medio al Nord, di 578 euro, risulta più basso rispetto a quello percepito al Sud, di 631 euro, secondo le informazioni fornite dall’Inps.
Nessuna speranza per alcune fasce
«Lo abolirei altre cento volte», ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che da anni si dichiara contraria all’Rdc così come era stato concepito dal primo governo di Giuseppe Conte nel 2019.
Alcuni concordano sul fatto che lo strumento sia stato deludente in termini di occupazione; solo tra il tre e l’otto per cento dei percettori del Reddito avrebbe infatti avuto offerta occupazionale o formativa. Sembra essere stato più efficace, invece, nel contrasto all’indigenza. Secondo l’Istat, grazie alla misura sarebbero uscite dalla condizione di povertà 404mila famiglie nel 2020, 484mila nel 2021 e 451mila nel 2022.
La partecipazione al lavoro nei prossimi mesi potrebbe ancora influenzare gli effetti della nuova riforma e raggiungere l’obiettivo del Decreto di «portare al lavoro più persone possibile», come aveva detto Calderone a gennaio.
Ma anche in quel caso, tra quelle persone non se ne conteranno molte migliaia in fascia di povertà che, invece, ne avrebbero bisogno.
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