Mentre i partiti fanno promesse mirabolanti agli anziani di oggi, c’è un chiaro problema di adeguatezza della pensione futura per una quota di cittadini, che avranno la pensione calcolata col contributivo e avranno contribuzioni molto limitate per livello di salario, tipologia di contratto e buchi lavorativi.
Non si è fatto in tempo ad avviare la campagna elettorale che i partiti hanno immediatamente posto le pensioni al centro della loro agenda. Berlusconi ha proposto di innalzare a 1000 euro al mese l’importo minimo di qualsiasi pensione, Salvini ha ricominciato a parlare di «abolizione della Fornero». Al di là della fattibilità e dell’auspicabilità di tali interventi, su cui non ci concentriamo in questo articolo, ciò che salta immediatamente all’attenzione è che si tratta di proposte di cui beneficerebbero solo le fasce più anziane della popolazione.
Futuro inadeguato
Eppure, parlare di pensioni non implica affatto guardare unicamente alle condizioni degli attuali anziani. Come già argomentato su Domani, dai dati a disposizione emerge un chiaro problema di adeguatezza della pensione futura per quella quota – per nulla minoritaria – di individui che vedranno calcolata la pensione interamente con il contributivo (quindi, unicamente sulla base dei contributi versati, senza poter beneficiare dell’integrazione al minimo) e che hanno trascorso finora un’ampia fase della carriera con retribuzioni (e quindi contribuzioni) molto limitate a causa dell’interazione di bassi salari, frequenti buchi lavorativi e periodi di occupazione con contratti a minore copertura contributiva.
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Diversamente dallo schema retributivo, dove eventuali prestazioni di importo limitato dipendevano quasi esclusivamente da una bassa anzianità lavorativa, nel contributivo simili prestazioni possono verificarsi anche se la vita lavorativa (specie se con frequenti interruzioni) non è stata breve. Bisogna, quindi, ragionare su misure capaci di tutelare strati crescenti di popolazione che – pur vedendo dilatare la loro fase di vita attiva, ma con occupazione saltuaria e mal retribuita – rischiano di ricevere in futuro pensioni di importo molto limitato. E questo rischio aumenta per i più giovani molti dei quali hanno avuto carriere con retribuzioni basse e saltuarie a causa della recessione del 2008-2013 e della pandemia.
Cosa fare, allora? Una proposta è quella della pensione di garanzia, avanzata già molti anni fa, che si basa sul presupposto che, dovendo tutelare chi avrà avuto storie lavorative lunghe ma sfavorevoli, la soluzione deve essere di carattere previdenziale, basata cioè su una ridefinizione della formula di calcolo della pensione, anziché di tipo assistenziale, come sarebbe una misura means tested di sostegno contro la povertà (come la pensione di cittadinanza e l’assegno sociale). I punti essenziali della pensione di garanzia possono essere così sintetizzati.
Cinque punti
In primo luogo essa è coerente con la logica del contributivo che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più. Si tratterebbe, infatti, di introdurre, nel contributivo un importo garantito, legato agli anni di contribuzione (effettiva e figurativa) e all’età di ritiro. Ogni qualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva a cui si ha diritto in base ai contributi fosse inferiore alla prestazione garantita, essa verrebbe integrata nella misura della differenza fra queste due grandezze.
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In secondo luogo, l’importo della garanzia si può fissare tenendo conto di tutto ciò che appare accettabile in una logica di equità. Come primo termine di riferimento si potrebbe fissare il suo importo a 14 mila euro annui lordi in caso di ritiro a 66 anni e 42 di anzianità, da ridurre o aumentare proporzionalmente in caso di carriere meno o più lunghe, tenendo conto degli anni di contribuzione e dei coefficienti di trasformazione alle diverse età di ritiro. Ma è bene cercare di tenere conto anche di altre caratteristiche individuali: ad esempio, le diverse aliquote di versamento, per non favorire gli autonomi che versano un’aliquota minore, o l’orario di lavoro (ma si potrebbe decidere di attribuire un vantaggio ai part-timers per compensarli della natura spesso involontaria di tale contratto). O ancora, nell’anzianità si potrebbero computare periodi privi di contribuzione da lavoro o figurativa, ma che si intendesse tutelare a fini previdenziale – ad esempio, periodi disoccupazione non indennizzata, o di cura o formazione.
In terzo luogo, una misura così disegnata permette di assicurare la target efficiency – cioè tutelare al minimo costo tutti e solo gli ex lavoratori con carriere sfavorevoli, minimizzando anche i disincentivi alla prosecuzione dell’attività. Con l’allungamento della carriera individuale crescerebbero, infatti, sia la pensione contributiva che la prestazione garantita.
Fiscalità o schema interno
In quarto luogo, il finanziamento dell’integrazione andrebbe posto a carico della fiscalità generale o, in alternativa, si potrebbe pensare a un finanziamento interno al sistema pensionistico, stabilendo una differenza fra aliquota di finanziamento e di computo della pensione, così creando una forma di redistribuzione solidaristico-assicurativa interna allo schema contributivo. Nel primo caso, si genererebbe un aggravio per il bilancio pubblico, ma, trattandosi di un’integrazione da applicarsi al solo schema contributivo, l’onere emergerebbe all’incirca dal 2040 in poi, quando la ‘gobba’ della spesa pensionistica italiana dovrebbe attenuarsi sensibilmente.
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Ovviamente, il primo campo di azione per contrastare le forme più inaccettabili di diseguaglianza salariale e contrattuale riguarda il mercato del lavoro, mediante un’efficace azione ‘predistributiva’. In attesa di ciò, e quantomeno per correggere le gravi iniquità che si manifestano ormai già da molti anni, le differenze più macroscopiche negli esiti lavorativi degli individui andrebbero compensate da un sistema pensionistico che compensasse, almeno parzialmente, quelle differenze degli esiti lavorativi che ripropongono disuguaglianze inaccettabili nelle pensioni. In altri termini, una buona politica dovrebbe cercare di modificare i processi ingiusti di mercato ma, in attesa di ciò, dovrebbe quantomeno evitare che gli esiti ingiusti di mercato condizionino anche i trasferimenti pensionistici pubblici.
Prima di concludere vale la pena di ricordare che questa proposta non ha mancato di raggiungere già da tempo i tavoli del governo. Ad esempio essa fu esplicitamente richiamata nel protocollo di intesa sulla riforma pensioni fra il Governo Renzi e i sindacati nel 2016 e fu poi al centro del tavolo governo-sindacati durante il ‘Conte bis’.
Né questa proposta, né altre eventualmente in grado di dare risposta al problema delle pensioni del futuro, hanno fatto il minimo passo avanti sulla strada della realizzazione. Riproporla oggi è un atto di coriacea fiducia nella possibilità che se ne tenga conto nei programmi elettorali dei partiti anche per dare prova del fatto che la sbandierata preoccupazione per i giovani non è cieca di fronte alle difficoltà dei più fragili di essi.
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