- A parità di condizioni, dal genere all’età, al titolo di studio, i residenti stranieri naturalizzati hanno una probabilità di essere occupati di 3,4 punti percentuali superiore a chi non viene naturalizzato.
- Hanno anche maggiori probabilità di avere un posto di lavoro con una qualifica maggiore, rispetto ai non naturalizzati. Una maggiore partecipazione degli stranieri al mercato del lavoro ha un impatto positivo sull’economia in generale
- In Italia quest’equazione non vale, ma potrebbe dipendere dal fatto che abbiamo regole sulla cittadinanza troppo restrittive per chi vuole trasferirsi nel nostro paese per lavorare
Quando si parla di cittadinanza, lo si fa soprattutto in termini identitari. C’è chi pensa che aver frequentato un ciclo scolastico in Italia sia un requisito sufficiente per essere considerati italiani e chi, invece, pensa che serva una conoscenza ancora più approfondita della nostra identità (non si sa bene in quali termini). Troppo poco spesso se ne parla in termini economici.
Una maggiore apertura o chiusura alla naturalizzazione degli stranieri ha infatti importanti conseguenze non solo sull’integrazione, ma anche sull’apporto economico dei nati all’estero. Il ragionamento è abbastanza intuitivo: una persona che ottiene la cittadinanza ha molti meno ostacoli burocratici nell’accesso al mercato del lavoro.
Questa sensazione è confermata dai dati. Il settimo rapporto dell’Osservatorio sulle migrazioni, curato da Tommaso Frattini e Piero Bertino per il Centro studi Luca D’Agliano e il Collegio Carlo Alberto di Torino, mostra come l’ottenimento della cittadinanza abbia un forte impatto sulle probabilità di lavorare delle persone nate all’estero. In particolare, uno straniero residente di lungo periodo, da almeno 10 anni, in Unione europea che ottiene la cittadinanza ha una probabilità di essere occupato di 3,4 punti percentuali superiore a chi non viene naturalizzato. La stima è fatta a parità di condizioni, dal genere, all’età, al titolo di studio.
L’impatto sull’occupazione può sembrare relativamente modesto, ma a fare la differenza è soprattutto la qualità: solo l’11 per cento dei nati all’estero che hanno ottenuto la cittadinanza lavora in occupazioni elementari (come i lavori domestici), contro il 24 per cento dei non naturalizzati. Insomma, gli stranieri che ottengono la cittadinanza finiscono per uscire dalla “nicchia” dei lavori di basso livello e riescono a integrarsi meglio sul mercato del lavoro. Non a caso, il 20 per cento degli stranieri naturalizzati lavora come professionista, contro il 12 per cento dei non naturalizzati.
In Italia non naturalizziamo chi vuole lavorare
A differenza della media dell’Unione europea, in Italia il vantaggio di ottenere la cittadinanza non si traduce in una maggiore probabilità di essere occupati, anzi. In media, infatti, questa probabilità è inferiore di 4,4 punti percentuali per gli stranieri naturalizzati rispetto a quelli che non hanno ottenuto la cittadinanza. È difficile pensare che, una volta naturalizzate, le persone nate all’estero decidano semplicemente di smettere di lavorare o perdano qualche caratteristica che permette loro di integrarsi più facilmente nel mercato del lavoro. Occorre piuttosto chiedersi chi sono le persone che ottengono la cittadinanza.
Innanzitutto, i dati dell’Osservatorio sulle migrazioni mostrano come la differenza nella probabilità di occupazione tra naturalizzati e non naturalizzati dipenda soprattutto dall’inattività. Le persone che hanno ottenuto la cittadinanza spesso non sono disoccupate, stanno cioè cercando un lavoro, ma non lo trovano, semplicemente decidono di non lavorare. Una possibile spiegazione è che si tratti di partner, di solito donne, che hanno ottenuto la cittadinanza tramite matrimonio, scegliendo poi la vita da casalinghe come del resto molte donne italiane, che prendono questa strada per obbligo o per scelta. In effetti, il 14 per cento delle cittadinanze concesse nel 2021 è stato ottenuto tramite matrimonio. In quasi metà dei casi, inoltre, la cittadinanza è stata ottenuta per “altri motivi”, tra cui la presenza in famiglia di un antenato italiano, il riconoscimento di un figlio da parte di chi è già cittadino o l’acquisizione della cittadinanza da parte di un genitore. È una fattispecie che riguarda soprattutto le persone sotto i 20 anni. Solo nel 42 per cento dei casi, infine, la cittadinanza si ottiene perché si è residenti nel paese da almeno 10 anni.
Sia chiaro, non c’è nessun problema a concedere la cittadinanza a molti giovani stranieri e alle persone che si sposano con italiane e italiani, ma forse sarebbe il caso di rendere la vita più semplice a chi decide di trasferirsi nel nostro paese per lavorare, mentre al momento sono richiesti criteri molto stringenti per ottenere la cittadinanza. Oltre ai dieci anni di residenza richiesti, infatti, è necessario anche seguire un iter burocratico molto lungo, che spesso viene abbandonato per mancanza di tempo e risorse. Non è un caso che solo il 12 per cento dei migranti che hanno vissuto in Italia per un periodo compreso tra 10 e 14 anni abbia acquisito la cittadinanza, contro il 28 e 27 per cento di Francia e Germania e il 77 per cento della Svezia.
Come per la parità di genere, la ricerca di una maggiore integrazione degli stranieri, anche attraverso requisiti meno stringenti per ottenere la cittadinanza, porta vantaggi economici a tutti. Se non si vuole ragionare pensando ai diritti, sarebbe il caso di farlo almeno con il portafogli.
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