- Vale la pena chiedersi se ci sono fattori che rendono la disuguaglianza particolarmente inaccettabile: una stessa disuguaglianza in termini quantitativi può essere diversamente giustificabile in termini etici e avere conseguenze diverse, in primis sul processo di crescita economica.
- In Italia il coefficiente di Gini dei redditi annui lordi da lavoro dipendente nel settore privato tra i primi anni Ottanta e il 2020 è aumentato di circa il 25 per cento.
- Dal 1990 alla pandemia la quota di lavoratori a basso salario, con retribuzione lorda annua inferiore al 60 per cento della mediana, ha raggiunto quasi il 31 per cento. La redistribuzione finora passa soprattutto tramite le pensioni.
Misurare livello e tendenza della disuguaglianza economica è complicato, sia perché i dati sui redditi non consentono di osservare con precisione ciò che accade nelle ‘code’ della distribuzione sia perché i redditi, come comunemente misurati, non colgono fattori cruciali per il benessere economico degli individui.
Ciò invita a prendere con cautela il risultato che emerge dall’analisi dei dati italiani negli ultimi anni, e cioè di costanza della disuguaglianza. Ma vale la pena anche chiedersi se ci sono fattori che rendono la disuguaglianza particolarmente inaccettabile.
Ci chiediamo, cioè, se i meccanismi che generano la disuguaglianza possano portare a contrastarla, anche indipendentemente dalla sua altezza e dalle sue tendenze.
Appare infatti possibile che una stessa disuguaglianza in termini quantitativi sia diversamente giustificabile in termini etici e abbia conseguenze diverse, in primis sul processo di crescita economica. Per fare un esempio, si pensi a due paesi con analogo livello di disuguaglianza dovuta però, in uno di essi, principalmente alla remunerazione delle abilità e capacità individuali in un contesto concorrenziale e, nell’altro, al godimento da parte di alcuni di posizioni protette dalla concorrenza e, quindi, generatrici di rendite.
La disuguaglianza salariale
Il tema è assai complesso e necessariamente ci limiteremo a poche considerazioni. La prima è che in Italia la costanza della disuguaglianza nei redditi disponibili si accompagna, almeno fino agli anni più recenti, a una disuguaglianza ben più alta e fortemente crescente nei redditi di mercato equivalenti, cioè nei redditi misurati prima del pagamento delle imposte dirette e del percepimento delle pensioni e degli altri trasferimenti monetari dallo stato.
Sinteticamente, è accaduto che nel mercato i redditi di molti lavoratori hanno perso terreno, favorendo anche il fenomeno dei working poor soprattutto, ma non soltanto, a causa del diffondersi del lavoro atipico involontario. Di conseguenza, quote di reddito sono passate dal lavoro al capitale e, al tempo stesso, le disuguaglianze tra lavoratori sono cresciute.
I dati al riguardo sono impressionanti, come mostra il XVIII rapporto annuale Inps. Il coefficiente di Gini dei redditi annui lordi da lavoro dipendente nel settore privato tra i primi anni Ottanta del XX secolo e il periodo precedente la pandemia è aumentato di circa il 25 per cento, da valori intorno a 0,340 a valori superiori a 0,420. Analogamente, fra il 1990 e il periodo pre-pandemico la quota di lavoratori a basso salario (con retribuzione lorda annua inferiore al 60 per cento della mediana) è cresciuta di oltre 5 punti percentuali (raggiungendo quasi il 31 per cento)
E anche i redditi non da lavoro si sono distribuiti in modo più diseguale, a vantaggio delle rendite finanziarie e di quelle derivanti da posizioni di tipo monopolistico. Va sottolineato che le disuguaglianze di mercato sono cresciute anche nelle fasi in cui l’occupazione è cresciuta, che dovrebbero essere quelle più favorevoli alla riduzione della disuguaglianza. Una conseguenza di tutto ciò è che le famiglie meno abbienti sono state costrette a lavorare di più per contenere la caduta dei loro redditi con effetti probabilmente non positivi sul proprio benessere.
Occorre anche sottolineare che le crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro solo in parte sono spiegate dal capitale umano, cioè dalle diverse capacità e abilità individuali, come abbiamo dimostrato in una nostra ricerca (pubblicata su Structural Change and Economic Dynamics, 2019). Infatti, l’intensa crescita della disuguaglianza dei salari in Italia è interamente dovuta alla maggiore dispersione delle retribuzioni fra persone con analoga istruzione. Ciò contrasta con la diffusa idea che la causa sia il premio maggiore riconosciuto a chi ha un’istruzione più elevata. Una quota rilevante delle disuguaglianze ‘a parità di istruzione’ dipende dal settore e dall’impresa in cui si lavora (aspetti che potrebbero essere del tutto scollegati a ‘meriti’ individuali), e da altre caratteristiche (ad esempio di tipo relazionale, legate in primis all’origine familiare) che mercati poco concorrenziali tendono a premiare. Tutto ciò appare sufficiente per interrogarsi sull’opportunità di predisporre politiche di contrasto alla disuguaglianza generata da questi meccanismi.
Una riflessione merita anche l’apparente contraddizione tra crescente disuguaglianza dei redditi di mercato e sostanziale costanza, in base ai dati ufficiali, di quella dei redditi disponibili. La risposta, semplice, è che l’azione redistributiva dello stato è cresciuta di intensità. Ma ciò non è avvenuto per una maggiore progressività delle imposte, perché è ben noto che è accaduto l’opposto, con la continua erosione dalla base imponibile Irpef di fonti di reddito appannaggio dei più abbienti. Né è avvenuto per una attribuzione significativamente maggiore dei trasferimenti a chi sta in basso nella scala dei redditi, escludendo il breve periodo di erogazione del reddito di cittadinanza.
Ridistribuzione tramite le pensioni
È avvenuto, invece, soprattutto per effetto delle pensioni. Infatti se, in Italia e non solo, la disuguaglianza nei redditi disponibili non riflette la disuguaglianza nei redditi di mercato lo si deve alle pensioni che affluiscono in misura relativamente maggiore alle famiglie che percepiscono redditi di mercato più bassi, pur essendo possibile che alcuni percettori di rilevanti redditi da capitale (quindi di mercato) ricevano anche pensioni elevate. Da tutto ciò possono trarsi le seguenti considerazioni.
La prima è che non può non preoccupare il fatto che i mercati creino disuguaglianza crescente, e con le caratteristiche che abbiamo ricordato. La seconda è che le pensioni sono, sostanzialmente, reddito da lavoro posticipato e quindi non possono essere incluse tra le genuine attività redistributive dello stato. La terza è che, con le tendenze in atto nel mercato del lavoro e la quota crescente di giovani che non arriveranno a versare contributi sufficienti per accedere a una pensione decente – in presenza di un meccanismo di calcolo delle pensioni, come il contributivo, che esclude qualsiasi forma di redistribuzione non di tipo assistenziale –, la funzione compensatrice delle pensioni è destinata a svanire.
Gli elementi su cui riflettere sono quindi numerosi. In prossimi articoli proveremo a avanzare qualche riflessione costruttiva, utile per individuare le policies più adatte per contrastare efficacemente fenomeni così complessi.
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