La nascita di un figlio rappresenta un punto di svolta nelle carriere lavorative delle donne ed è tuttora uno dei principali fattori che contribuiscono alla presenza di divari occupazionali e retributivi di genere.
All’interno del nostro paese, la child penalty è maggiore nelle regioni in cui sono meno diffusi gli asili nido, così come è maggiore dove gli stereotipi di genere sono più forti.
- Uno degli obiettivi espliciti del Pnrr è quello di aumentare l’occupazione femminile, ma le risorse stanziate potrebbero non essere sufficienti a cambiare pagina.
Nel discorso di presentazione del piano nazionale di ripresa e resilienza, il presidente Draghi ha richiamato il capitolo di spesa dedicato alla costruzione e riqualificazione di asili nido e servizi dell’infanzia, a cui sono dedicati 4,6 miliardi e che dovrebbe garantire la creazione di 228 mila posti aggiuntivi per i bambini in età prescolare. L’obiettivo esplicito è quello di incoraggiare la partecipazione femminile al mercato del lavoro e di migliorare l’equilibrio t tra vita familiare e professionale, in un paese con forti ritardi strutturali sul primo fronte e ampie asimmetrie sul secondo.
In effetti, la nascita di un figlio rappresenta un punto di svolta nelle carriere lavorative delle donne ed è tuttora uno dei principali fattori che contribuiscono alla presenza di divari occupazionali e retributivi di genere.
Il costo sul mercato del lavoro della nascita di un figlio è comunemente chiamato child penalty e è un fenomeno diffuso in diversi paesi. Misura la perdita in termini di redditi di lavoro che le madri subiscono in seguito alla nascita di un figlio, se confrontate con i padri, o con donne senza figli che ne condividono le caratteristiche ad esempio in termini di età, competenze e salari. Anche nei paesi scandinavi, che di solito primeggiano nelle classifiche internazionali sulla parità di genere, le madri pagano una penalità di lungo periodo superiore al venti per cento in termini di minori redditi da lavoro rispetto ai padri in seguito alla nascita di un figlio. In Austria, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Spagna – altri paesi in cui tale penalità è stata misurata – la perdita è ancora maggiore.
Calcolare l’impatto della maternità
L’Italia non fa eccezione. Abbiamo ottenuto una stima della child penalty di lungo periodo per il nostro paese sulla base di un campione di dati Inps sui lavoratori dipendenti del settore privato tra il 1985 e il 2018. Per individuare la nascita di un figlio, abbiamo identificato tutti gli episodi di congedo di maternità delle lavoratrici e abbiamo stimato le traiettorie dei salari annuali delle mamme nei cinque anni antecedenti e nei quindici successivi all’anno del primo congedo. Per capire l’impatto della maternità, le confrontiamo con le traiettorie dei salari delle lavoratrici che non hanno avuto figli e che sono comparabili – nell’anno antecedente alla nascita – alle donne con figli in termini di età, competenze e salari. Idealmente, questo gruppo dovrebbe rappresentare uno scenario controfattuale, ossia uno scenario che mostra quale sarebbe stata la traiettoria delle variabili prese in esame in assenza della nascita di un figlio.
La figura mostra la misura della child penalty che otteniamo per l’Italia: la linea solida nera coglie la differenza percentuale tra i salari delle donne con figli e quelli delle donne senza figli rispetto all’anno antecedente la nascita. A quindici anni dalla nascita i salari annuali delle mamme crescono del 57 per cento in meno rispetto a quelli delle donne senza figli. Il crollo è molto forte nell’immediatezza della nascita, ma il divario che si è creato non si chiude.
Perché dopo la maternità i redditi delle lavoratrici “cambiano sentiero”? Ci possono essere due ragioni: le mamme riducono la propria offerta di lavoro, diminuendo il numero di settimane lavorate o passando a contratti part-time a parità di settimane. Oppure possono – a parità di offerta di lavoro – ricevere salari settimanali inferiori: si spostano in imprese che pagano meno, magari in cambio di maggiore flessibilità o vicinanza casa-lavoro, o in alternativa occupano posizioni professionali meno remunerative all’interno della stessa impresa. La figura mostra il contributo alla child penalty complessiva nei redditi di lavoro annuali distinguendo tra riduzioni nel numero di settimane lavorate, passaggio a contratti part-time e perdita di salario settimanale. A quindici anni dalla nascita di un figlio, oltre i due terzi della child penalty (il 68 percento) sono spiegati da una riduzione dell’offerta di lavoro delle mamme rispetto alle non-mamme attraverso il minor numero di settimane lavorate in un anno. Il 20 percento è spiegato dal passaggio al part-time, mentre il 12 percento è riconducibile a minori salari settimanali tempo pieno equivalenti. È dunque la riduzione dell’offerta di lavoro delle mamme a contribuire in larga parte alla penalità nei salari annuali. Una penalità – quella mostrata dalla figura – che non considera l’uscita delle madri dal mercato del lavoro: la misura complessiva di quanto la maternità abbia un impatto sul lavoro delle donne dovrebbe anche prendere in considerazione che le donne con figli hanno dei tassi di uscita dal mercato del lavoro di 12 punti percentuali superiori alle non-mamme dopo 15 anni. Gli effetti della maternità sono pertanto evidenti e si manifestano non solo nel breve periodo, ma persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio. Uno “shock” da cui le donne non si riprendono.
Divari anche nella penalità
Fino qui i numeri, che alcuni potrebbero leggere come la prova che il mercato del lavoro non è disegnato per le donne con figli; altri come evidenza del cambio delle preferenze nell’equilibrio tra lavoro e famiglia dopo la nascita di un figlio per le madri (e assai meno per i padri). In effetti, la “penalità” sul mercato del lavoro legata alla nascita di un figlio coglie più aspetti. Può riflettere le preferenze delle mamme che desiderano trascorrere del tempo con i figli e quindi riducono il tempo dedicato al lavoro (l’effetto non è però osservato per i papà).
Ma può catturare anche le difficoltà di conciliazione equilibrare tra lavoro e famiglia - che l’assenza di servizi di cura e asili nido possono rendere insormontabili -, oppure stereotipi e norme sociali che vogliono le mamme come principali o esclusive responsabili della cura dei figli. Ad esempio, che l’Italia sia poco generosa sul fronte dei servizi di cura e conservatrice sul fronte della cultura di genere può spiegare perché la perdita dei redditi di lavoro delle madri sia molto più ampia da noi che nei paesi scandinavi. Ma anche all’interno del nostro paese, la child penalty è maggiore nelle regioni in cui sono meno diffusi gli asili nido, così come è maggiore dove gli stereotipi di genere sono più forti, e dove il lavoro domestico e di cura dei figli viene tuttora ritenuto un compito esclusivo delle donne.
La dimensione e la persistenza nel tempo della penalità non possono essere ignorate in una società che voglia valorizzare il lavoro delle donne e che si interroghi sul declino della natalità, che ha toccato un nuovo record negativo nel 2020, forse non solo a causa della pandemia. Le sole risorse indicate nel Pnrr potrebbero non essere sufficienti a cambiare pagina.
© Riproduzione riservata