«Resta fondamentale il livello di istruzione dei genitori per i percorsi di studio dei figli».

«I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

Tra le due frasi sono passati circa 77 anni. L’origine della seconda è facile: è presa dall’art.34 della Costituzione, promulgata il 27 dicembre del 1947. Verrebbe quindi da pensare che la prima sia ottocentesca, quando a studiare erano principalmente i figli (soprattutto maschi) delle classi più agiate e l’istruzione era elitaria.

E invece no: è il titolo del recentissimo rapporto Livelli di istruzione e ritorni occupazionali – 2023, pubblicato il 17 luglio del 2024 dall’Istituto nazionale di statistica e che fa il punto sullo stato dell’istruzione in Italia.

Quasi ottant’anni dopo gli appassionati dibattiti all’Assemblea Costituente tra Concetto Marchesi e Aldo Moro, che concordarono sulla definizione di scuola come «bene sociale», i numeri dell’Istat fotografano un sistema scolastico ancora ben lontano dalla sostanza della fondamentale asserzione che apre l’art.34: «La scuola è aperta a tutti». È vero che tutte le persone possono – e per la scuola dell’obbligo devono – varcare le porte della scuola, ma è purtroppo altrettanto vero che i percorsi al suo interno sono diseguali a seconda delle condizioni in cui esse si trovano, per situazione familiare, genere, Paese di origine.

Qualche numero tra quelli forniti dall’Istat ci aiuterà a cogliere il succo della questione. Partiamo dall’inizio del rapporto; scrive l’Istat: «…si è rilevato che quando i genitori hanno un basso livello di istruzione quasi un quarto dei giovani (24 per cento) abbandona precocemente gli studi e poco più̀ del 10 per cento raggiunge il titolo terziario (in sostanza una laurea o un titolo analogo, n.d.r.); se almeno un genitore è laureato, al contrario, le quote diventano rispettivamente 2 per cento e circa 70 per cento».

Ovvero, se almeno uno tra i genitori ha conseguito la laurea, la probabilità di smettere di andare a scuola dopo la terza media è davvero piccola: accade in media solo a 2 su 100; e quella che tu diventi dottore in qualcosa è invece alta, accade a 7 persone su 10. Ma se invece, per i casi della vita nessuno dei genitori ha una laurea, lo scenario è ben diverso: in media un quarto di quelle figlie e figli non andrà oltre la terza media e solo uno su dieci concluderà gli studi universitari.

A ciò si aggiungono ulteriori cause di disparità. La cittadinanza, per esempio: «Tra i giovani con cittadinanza straniera», scrive l’Istat, «il tasso di abbandono precoce degli studi è tre volte quello degli italiani (26,9 per cento contro 9,0 per cento) e varia molto a seconda dell’età̀ di arrivo in Italia».

Chi arriva prima ha naturalmente più facilità a inserirsi e a rimanere nel percorso scolastico. In generale in Italia il numero di laureati è basso rispetto alla media europea, come sottolinea il rapporto: «Nonostante in Italia, nel 2023, la quota di giovani adulti in possesso di un titolo di studio terziario sia leggermente cresciuta, attestandosi al 30,6 per cento, […] è decisamente inferiore alla media europea (43,1 per cento nell’Ue27)».

Numeri bassi, quindi, che però nascondono ulteriori disparità: «Il divario territoriale a sfavore del Mezzogiorno è molto marcato»; per gli immigrati, poi, le differenze rispetto alla situazione europea sono ancor più ampie: solo il 12,7 per cento si laurea, circa un terzo della media Ue.

Abbandono precoce e mancato conseguimento di un titolo universitario hanno conseguenze concrete sulla vita delle persone. Quelle laureate trovano più facilmente lavoro: «Tra i 25-64enni», secondo l’Istat, «il tasso di occupazione dei laureati è 11 punti percentuali più̀ alto di quello dei diplomati (84,3 per cento e 73,3 per cento, rispettivamente)».

L’abbandono precoce degli studi – la cui diminuzione sostanziale è una delle priorità dell’Unione europea – si traduce invece in un tasso di occupazione nella fascia di età 18-24 anni pari a solo il 44,4 per cento, peraltro con una pesante differenza di genere a sfavore delle ragazze.

Le differenze tra maschi e femmine – a sfavore delle seconde – compaiono purtroppo in vari punti del documento Istat. Le donne in Italia sono sì più̀ istruite degli uomini, dato che nel 2023, il 68,0 per cento delle 25-64enni ha almeno un diploma o una qualifica contro il 62,9 per cento tra gli uomini, mentre coloro in possesso di una laurea raggiungono il 24,9 per cento (18,3 tra gli uomini). Però, sottolinea il rapporto, «il vantaggio femminile nell’istruzione non si traduce in un vantaggio lavorativo: il tasso di occupazione femminile è molto più̀ basso di quello maschile (59,0 per cento contro 79,3 per cento)».

Le differenze permangono e si acuiscono anche d’estate, quando la scuola finisce, periodo fondamentale per la crescita di bambine e bambini. Secondo un recente rapporto di Save the Children e Fondazione Agnelli «il vento d’estate spinge ancor più̀ lontano da linee di partenza già̀ differenti le vite e gli apprendimenti dei minori in condizione di maggior svantaggio, acuendo il divario con i loro pari».

Il rapporto spiega che nel 2022 soltanto due minori su cinque, di età̀ compresa tra 0 e 15 anni, ha potuto svolgere una vacanza fuori dalla propria città di origine per più̀ di quattro notti consecutive durante il trimestre estivo. Un elemento, che insieme ad altri, mette ancor più in difficoltà chi non può svolgere attività stimolanti dal punto di vista educativo durante l’estate.

Negli anni, dei passi in avanti si sono fatti, ma non abbastanza; abbiamo ancora un sistema di istruzione che non mette tutte le persone allo stesso livello. Dato che, come scrive l’Istat, «resta fondamentale il livello di istruzione dei genitori per i percorsi di studio dei figli», solo scelte politiche forti, condivise e fuori da schemi consolidati possono scardinare questo triste meccanismo ereditario, che lasciato a sé stesso rende estremamente lenta la soluzione del problema.

Una scuola diseguale è un problema enorme per il nostro Paese, per la sua tenuta sociale, per un progresso che sia veramente di tutte e tutti, e per il ruolo che l’Italia ambisce avere nella moderna comunità internazionale; l’istruzione è strumento fondamentale di giustizia sociale e di crescita e, in buona sostanza, per una democrazia compiuta.

A ciò pensava anche Giacomo Matteotti, assassinato dallo squadrismo fascista proprio cent’anni fa. Del suo prezioso percorso molto si è parlato in queste settimane. Val la pena di ricordare che la scuola fu al centro della sua azione politica, come illustra un volume a cura di Stefano Caretti e Jaka Makuc pubblicato da Pisa University Press.

Il deputato socialista fu autore di concrete proposte politiche sulla scuola, a tutti i livelli, per rendere l’istruzione davvero popolare, di tutte e tutti, come avrebbe poi previsto la nostra Costituzione. Matteotti incalzava i governi dell’epoca.

Era conscio del ruolo centrale dei primi anni di scuola e anche della formazione di chi da giovane non era riuscito a studiare, proprio per velocizzare l’uscita dalla deprivazione educativa. Auspicava le «Cattedre ambulanti», che andassero di comune in comune per portare conoscenza là dove serviva, a quel pubblico fatto di lavoratrici, lavoratori e famiglie che più era stato costretto a sacrificare l’istruzione e che tanto l’avrebbe desiderata.

«Riaffermiamo e rivendichiamo tutto il nostro interesse alla istruzione e alla educazione dei lavoratori» scriveva Matteotti «Strumento primo e validissimo della loro emancipazione […] requisito e mezzo indispensabile […] per offrire ai dubitosi e agli avversi la priva della possibilità di un mondo più consapevolmente e liberamente umano e civile».

Parole che, un secolo dopo, sono ancora estremamente attuali.

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