- Nel 2016 l’Economist affermò che dopo la caduta del muro di Berlino abbiamo avuto un rafforzamento del crony capitalism, un sistema che porta all’arricchimento visibile di chi opera in settori molto regolamentati e a vantaggi (non sempre visibili) per chi prende decisioni politiche.
- Quel sistema tende a creare, o tollerare, rendite, cioè redditi che in assenza delle protezioni assicurate da quelle stesse decisioni non sarebbero guadagnati.
- Un neo-liberismo poco amichevole nei confronti della concorrenza non è facile da immaginare e questo consiglierebbe più cautela nell’uso, anche critico, del termine.
Cosa hanno in comune l’assalto al Campidoglio di Washington e i contratti per la somministrazione dei vaccini? Non molto, ma almeno una cosa, di grande importanza: illustrano il ruolo che il potere economico ha nell’assunzione di decisioni drammaticamente influenti sulla vita delle persone. Non una legge ma le decisioni, condivisibili o meno, dei proprietari delle piattaforme hanno stabilito cosa potesse circolare sui social media dopo l’assalto al Campidoglio. E i comportamenti di privati che, legittimamente, collocano i propri profitti in cima alle proprie preoccupazioni hanno determinato costi e disponibilità dei vaccini, decisivi per le condizioni di vita delle persone.
L’influenza che il potere economico ha su decisioni vitali per la democrazia invita a riflettere sui suoi rapporti con il potere politico e, più specificamente, a misurarsi con la tesi che a dominare in Occidente sia oggi il crony capitalism, cioè il capitalismo clientelare.
Vicinanza tra poteri
Nel 2016 l’Economist diede grande risalto alla tesi secondo cui con la caduta del muro di Berlino avesse vinto, contro il socialismo reale, non il capitalismo (senza aggettivi, e tanto meno neo-liberista) bensì il crony capitalism. Una definizione precisa e condivisa di questo sistema non è disponibile.
L’Economist afferma che il crony capitalism si è rafforzato dopo il crollo del muro di Berlino sulla base dell’andamento di un indice, elaborato dalla stessa rivista, dato dal rapporto tra la ricchezza degli amministratori delle società operanti in settori considerati clientelari e il Pil dei vari paesi. La sua crescita, a partire dai primi anni ’90 giustifica la tesi dell’Economist. L’indice mette anche in evidenza la concezione di crony capitalism della rivista: un sistema che trasforma la “vicinanza” tra potere politico e potere economico (quale quella che si realizza nei settori molto regolamentati e perciò più “clientelari”) in occasione di arricchimento (visibile) per chi opera in quei settori e, verosimilmente, di vantaggio (non sempre visibile) per chi prende decisioni politiche.
Questa concezione può essere discussa, soprattutto perché il crony capitalism può manifestarsi, e in forme diverse, anche in settori poco o nulla regolamentati come le piattaforme digitali, e magari serve proprio a ostacolare la regolamentazione.
In ogni caso essa mette in chiaro un punto: il capitalismo clientelare va tenuto distinto dalla corruzione. Questo punto era stato già chiarito dalla banca mondiale quando, appunto, tracciò, molti decenni fa, la distinzione tra corruzione amministrativa e crony capitalism.
Il riferimento, allora, era ai paesi in via di sviluppo; la novità sarebbe la diffusione del crony capitalism anche nei paesi avanzati, in particolare negli Stati Uniti.
L'assenza di benefici collettivi
Senza sottovalutare la complessità del fenomeno, si può sostenere che per parlare di crony capitalism le decisioni pubbliche (anche quelle che consistono nel non fare nulla) devono conferire un vantaggio privato senza corrispondenti benefici collettivi.
Quel sistema tende, quindi, a creare, o tollerare, rendite, cioè redditi che in assenza delle protezioni assicurate da quelle stesse decisioni non sarebbero guadagnati.
Una specifica modalità con cui questo avviene è la creazione di condizioni che limitano la concorrenza sui mercati e favoriscono i monopoli. Anche al di là dei casi clamorosi delle piattaforme digitali, numerosi indicatori segnalano che in molti mercati è aumentata la concentrazione, e la pandemia rischia di aggravare questa tendenza.
L’accondiscendenza nei confronti della limitazione della concorrenza appare singolare in un’epoca chiamata di neo-liberismo. Questo termine, come altri riferiti a fenomeni complessi, non sembra avere oggi un’accezione unica e la sua storia conferma che anche in passato è stato così. Ma il pluralismo semantico difficilmente può ricomprendere la limitazione della concorrenza e lo conferma quanto si legge in un articolo del 2016 del Fondo monetario internazionale: «accrescere la concorrenza» è uno degli indiscutibili pilastri del neo-liberismo.
Reciproci vantaggi
Un neo-liberismo poco amichevole nei confronti della concorrenza non è facile da immaginare e questo consiglierebbe più cautela nell’uso, anche critico, del termine. La tiepidezza nei confronti della concorrenza può essere spiegata da una combinazione di interessi e di idee, alle quali si può credere davvero o che semplicemente servono a nascondere gli interessi. Questi ultimi si riferiscono ai reciproci vantaggi del potere economico protetto dal potere politico e del potere politico “rafforzato” dal potere economico.
Le idee, invece, riguardano – in contrasto con la teoria economica – i vantaggi che il monopolio potrebbe portare al cosiddetto benessere del consumatore, principalmente attraverso prezzi più bassi.
Al di là del rapporto tra limitazione della concorrenza e benessere del consumatore appare davvero insoddisfacente limitarsi a quest’ultimo criterio.
Anzitutto perché il prezzo da pagare per l’eventuale maggiore benessere del consumatore potrebbe essere un peggioramento nelle condizioni di reddito e di lavoro che sul benessere degli individui hanno un’influenza non minore del consumo. In secondo luogo, e soprattutto, perché le conseguenze del rafforzamento del potere economico possono essere pervasive, devastanti e alterare profondamente il funzionamento della democrazia.
Mentre inizia la presidenza Biden è forse opportuno ricordare cosa pensava del potere economico un suo illustre predecessore: Franklin D. Roosevelt. Nella sua visione esso contrastava con uno dei principi costituzionali degli Stati Uniti, l’eguaglianza delle opportunità. Considerando gli esempi richiamati all’inizio, quel contrasto conserva una sua inquietante attualità, affossando qualsiasi buona idea in difesa del crony capitalism. In gioco c’è molto di più che l’eventualità di un consumatore (non un individuo) più soddisfatto.
Restano naturalmente gli interessi e per non concludere desolatamente che i valori non possano imporsi ad essi vale la pena ricordare quanto Roosevelt affermò, in occasione del discorso di accettazione della seconda candidatura alla presidenza, riferendosi agli esponenti più aggressivi del potere economico: «sono uniti nel loro odio contro di me e io do il benvenuto al loro odio».
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