Fanno discutere le linee guida pubblicate dall’Equality and Human Rights Commission nel Regno Unito, con cui i sintomi più invalidanti nell'interruzione definitiva delle mestruazioni possono essere considerati una disabilità. In Italia mancano direttive nazionali. Sono le singole aziende a scegliere se e quali pratiche introdurre per la tutela e il sostegno delle donne.
L’Equality and Human Rights Commission (EHRC), che monitora e promuove la parità e la non discriminazione nel Regno Unito, ha pubblicato delle linee guida sugli obblighi legali dei datori di lavoro nei confronti delle loro dipendenti in menopausa. Nel report la commissione specifica che i sintomi più invalidanti dovuti alla menopausa possono essere considerati una disabilità, per cui le lavoratrici che ne soffrono rientrerebbero tra le categorie protette dall’Equality Act 2010, la legge anti-discriminazione britannica. I datori di lavoro hanno perciò l’obbligo legale di mettere in atto «ragionevoli aggiustamenti» per garantire alle proprie dipendenti in menopausa di continuare a svolgere il proprio lavoro, oltre che di non discriminarle direttamente o indirettamente.
Tra gli adeguamenti, l’EHRC suggerisce il controllo della temperatura negli ambienti di lavoro, la creazione di aree destinate al riposo e la promozione della flessibilità lavorativa, che permetterebbe alle donne di lavorare da casa o adattare gli orari in ufficio se necessario.
Queste linee guida arrivano dopo che alcuni studi avevano evidenziato le difficoltà sul posto di lavoro vissute da molte donne in menopausa o nella fase che la precede, detta perimenopausa. Nello specifico, per quasi una donna su due i sintomi hanno avuto conseguenze negative sulla propria vita lavorativa mentre una su dieci ha dovuto dimettersi. Per molte donne è l’assenza di policy e supporto in azienda l’ostacolo principale allo svolgimento della propria professione in menopausa.
Senso di affaticamento, cali di memoria, ansia, confusione mentale, vampate di calore, disturbi del sonno sono alcuni dei sintomi di perimenopausa e menopausa che in molti casi possono manifestarsi in maniera così intensa da incidere in modo sostanziale sulla vita quotidiana delle persone. È per queste ragioni che l’EHRC ha parlato di potenziale disabilità, una scelta che ha però generato una forte contrarietà e che è stata definita un ennesimo tentativo di patologizzazione del corpo delle donne.
La scena italiana
Intanto però, mentre all’estero si comincia a prendere consapevolezza della necessità di un cambiamento, in Italia non esistono direttive nazionali e sono le singole aziende e realtà lavorative a poter scegliere se e quali pratiche introdurre per la tutela e il sostegno delle donne in menopausa. Nel 2017 l’Inail ha pubblicato delle linee guida su menopausa e lavoro, ma oltre a un breve riferimento al ruolo che formazione e informazione possono avere sul posto di lavoro, è alle donne che vengono rivolti i maggiori accorgimenti tra cui «un’alimentazione corretta ed equilibrata» e «una regolare attività fisica di tipo aerobico».
Eppure, con l’innalzamento dell’età pensionabile e un’aspettativa di vita più alta rispetto al passato, oggi molte donne in Italia trascorrono anche fino a 15-20 anni della loro vita lavorativa in menopausa, e, come ha spiegato la professoressa Joanna Brewis, esperta di menopausa e mondo del lavoro, «nel nord globale, le statistiche ci dicono che le donne cisgender in età da menopausa sono uno dei gruppi in più rapida crescita nella forza lavoro». Dal punto di vista della responsabilità sociale, sostiene la studiosa, «dare supporto al personale con i sintomi più difficili della menopausa è semplicemente la cosa giusta da fare da parte dei datori di lavoro.
Oggi abbiamo prove certe che le donne di questa categoria sono molto più propense a lasciare il lavoro o a ridurne l’orario, e questo ha implicazioni significative per la loro autostima e le loro reti sociali, oltre che per la loro sicurezza finanziaria». Ma per le aziende è anche una questione strettamente economica: non dare sostegno alle dipendenti «può costituire una perdita di denaro per i datori di lavoro in termini di calo della produttività e di turnover del personale».
Secondo la professoressa Brewis, «introdurre una qualche forma di supporto non deve necessariamente essere una policy sulla menopausa – in alcune organizzazioni linee guida più informali possono rappresentare la scelta più adeguata». A questo proposito, Brewis ha citato l’esempio dell’Università di Greenwich, che organizza eventi, sessioni di supporto e percorsi di formazione per manager e dipendenti.
Al tempo stesso, è difficile immaginare un vero e proprio cambiamento senza abbattere lo stigma nei confronti della menopausa e dell’invecchiamento nel genere femminile, anche nei luoghi di lavoro. «La menopausa non è una disabilità e non dovrebbe essere classificata come tale», ha scritto l’autrice e scienziata comportamentale Pragya Agarwal, a proposito della scelta dell’EHRC di definire i sintomi più invalidanti come tale. «Ciò di cui abbiamo bisogno è riconoscere l’ageismo e la discriminazione in base all’età, conversazioni più aperte ed educazione per tutti, per eliminare i tabù e la vergogna attorno a normali processi fisiologici».
© Riproduzione riservata