- La povertà non è oggettiva, può essere misurata in base al reddito, in base ai consumi o in base a indicatori della deprivazione materiale cioè come difficoltà di accesso a un paniere di beni e servizi.
- Il grado di sovrapposizione dei poveri secondo ognuno dei tre criteri è in generale molto limitato. I dati dell’Istat che hanno fatto molto discutere nei giorni scorsi, sull’aumento di un milione di poveri, si basano sui consumi.
- Per rispondere alla crisi sociale causata dalla pandemia dobbiamo imparare a distinguere chi è stato costretto a non consumare e chi invece subisce una deprivazione reale, dobbiamo raffinare la misurazione della povertà per intervenire.
Nei giorni scorsi hanno destato grande preoccupazione i dati preliminari diffusi dall’Istat sull’andamento della povertà assoluta in Italia nel corso del 2020, secondo i quali il numero dei poveri nell’anno terribile della pandemia sarebbe cresciuto di circa un milione, e l’incremento più marcato si sarebbe verificato nel ‘ricco’ Nord. Non vi è dubbio che le condizioni di vita di moltissime famiglie e persone siano peggiorate, anche drammaticamente, ma la pubblicazione di questi dati, e molte delle reazioni che hanno suscitato, invita a riflettere sulle modalità con le quali si misura la povertà e sul significato che, in una fase come questa, può avere il peggioramento dell’indicatore utilizzato per misurarla.
La nozione di povertà non è certo oggettiva. Per rendersene conto è sufficiente menzionare solo qualcuno dei problemi da risolvere per definirla. Si può considerare povero chi non raggiunge un determinato livello di spesa per consumo oppure chi non dispone di un prefissato reddito minimo. In entrambi questi casi il metro per misurare la povertà è monetario e, a seconda di come è definita la soglia che la delimita, può essere assoluta o relativa. Quest’ultima è fissata come percentuale di un valore medio, in base all’idea che per la povertà è rilevante anche quanto si è “distanti” dagli altri. La povertà potrebbe, inoltre, essere misurata come deprivazione materiale cioè come difficoltà di accesso a un insieme di beni o servizi considerati essenziali, indipendentemente dal reddito e dal consumo di cui si dispone. Famiglie che avessero redditi dignitosi e spendessero molto per esigenze incomprimibili, dovute ad esempio a malattie o disabilità, potrebbero essere deprivate senza essere povere monetariamente.
Tre diverse misure
Queste tre possibilità non sono pure astrazioni. Sono tre modi diversi in cui si misurano quelle situazioni di grave disagio a cui rimanda l’idea di povertà. I dati di cui si discute in questi giorni si riferiscono alla povertà assoluta misurata dall’Istat con riferimento alla spesa per consumi; ma vi è anche la povertà relativa, principalmente riferita ai redditi, con una soglia che varia con il reddito medio (o mediano) e, ancora, l’indicatore di deprivazione materiale. Non sorprendentemente questi indicatori danno risposte diverse alla domanda: «Quanti sono i poveri?»
Forse più sorprendentemente il grado di sovrapposizione dei poveri secondo ognuno dei tre criteri è in generale molto limitato. Infatti, la composizione del gruppo dei poveri cambia in misura significativa quando si modifica la metodologia di misurazione (si veda Cutillo, Raitano e Siciliani in Social Indicators Research 2020): se si guarda ai redditi la povertà è relativamente più frequente fra i giovani che fra gli anziani, mentre il divario si attenua di molto se ci si concentra sui consumi. Ancora, se si utilizza l’indicatore di «severa deprivazione materiale (Smd)» proposto dalla Commissione europea – misurato come la quota della popolazione che non può permettersi almeno quattro di nove beni o servizi essenziali – si scopre che povertà assoluta e Smd si parlano molto poco: solo il 31 per cento dei poveri di reddito sono anche severamente deprivati, mentre fra chi è in Smd appena il 20 per cento risulta povero, a conferma di quanto si è detto in precedenza.
Inoltre, quando si misura la povertà in base alla spesa per consumi, come avviene per la povertà assoluta, è opportuno chiedersi quali sono le ragioni che hanno fatto crescere il numero di coloro che hanno varcato, verso il basso, la soglia che delimita la povertà così definita. L’assunzione, pienamente convincente, è che ciò avvenga per effetto di qualche “costrizione” – cioè praticamente nessuno sceglierebbe, se non fosse costretto, di spingere i propri consumi sotto quella soglia. Ma la pandemia ci invita a riflettere sul fatto che la “costrizione” potrebbe avere origine diversa da quella a cui immediatamente si pensa, e cioè la caduta del proprio potere d’acquisto. Il lockdown e il timore di contagio possono spingere i consumi di qualcuno non “costretto” dal reddito sotto la soglia della povertà. Se si riduce la spesa per viaggi, ristoranti e bar e magari si risparmia sull’affitto per la benevolenza del proprietario la spesa complessiva per consumi può scendere al di sotto della soglia e si viene considerati poveri. Lo si è nel senso della “costrizione” a consumare poco, ma non nel senso dell’insufficiente potere d’acquisto. Al limite potrebbe crescere il risparmio.
Va anche ricordato, per converso, che quando si spende molto per consumo ma si soffre di deprivazione materiale l’innegabile disagio non nasce dal fatto che si è costretti a spendere poco; semmai si è costretti a spendere molto per far fronte a emergenze che rendono impossibile soddisfare alcuni bisogni considerati essenziali.
Imparare a distinguere
Da tutto ciò possono trarsi diverse implicazioni. La prima è che una compiuta interpretazione dell’impatto della pandemia sulla povertà assoluta come misurata dall’Istat necessita di approfondimenti che consentano di distinguere la “costrizione” da perdita di potere d’acquisto dalla “costrizione” dovuta alla perdita, per così dire, di libertà nella spesa. La seconda implicazione è che occorre cercare di migliorare la misurazione della povertà e per farlo si potrebbe ricorrere a una efficace integrazione delle diverse modalità indicate in precedenza oppure, seguendo alcune indicazioni della teoria economica, fare un uso adeguato del concetto di «consumo potenziale» cui ciascuno può accedere per valutarne l’adeguatezza a garantire un insieme di beni e servizi considerati essenziali, al di là del consumo effettivo Va però tenuto presente che il consumo potenziale è catturato dal reddito solo quando quest’ultimo viene correttamente misurato e ciò è ostacolato, ad esempio, dall’evasione e dalla difficile misurazione dei redditi non da lavoro dipendente.
In ogni caso, come la pandemia insegna, nel misurare le povertà si dovrebbe tenere conto dello specifiche condizioni di contesto per evitare di trattare come identiche “costrizioni” che in realtà sono di natura molto diversa, con conseguenze assai rilevanti per l’individuazione delle politiche più idonee da adottare.
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