- Il 41 per cento degli italiani si sente escluso o parzialmente escluso dalla società. Un dato che sale al 63 per cento nei ceti popolari, al 48 per cento tra i giovani tra i 18 e i 30 anni e al 46 per cento tra quanti attualmente non lavorano.
- Il 34 per cento degli italiani (68 per cento nei ceti popolari e 41 per cento al Sud) ha dovuto procrastinare le spese per il dentista.
- Infine, il 9 per cento (22 per cento nei ceti popolari) non ha la possibilità di mangiare a sufficienza e in modo vario.
Segnali di sgretolamento della tenuta sociale. Il quadro generale del paese mostra i tratti di infragilimento economico e sociale cui è necessario destare attenzione, specie prima di mettere mano agli ammortizzatori sociali e alle forme di sostegno alle famiglie.
Il 41 per cento degli italiani si sente escluso o parzialmente escluso dalla società. Un dato che sale al 63 per cento nei ceti popolari, al 48 per cento tra i giovani tra i 18 e i 30 anni e al 46 per cento tra quanti attualmente non lavorano.
La fotografia del quadro complesso che si sta delineando nella società italiana è stata scattata a ottobre dall’osservatorio Fragilitalia realizzato del centro studi Legacoop e da Ipsos.
L’aumento dei prezzi, la precarizzazione e la paura di perdere il lavoro, la lievitazione delle bollette, stanno facendo sentire i loro effetti. Il 34 per cento degli italiani (68 per cento nei ceti popolari e 41 per cento al Sud) ha dovuto procrastinare le spese per il dentista.
Il 41 per cento non può più permettersi di fare vacanze lunghe e comunque non può andare in vacanza più di una volta all’anno.
Il 22 per cento delle persone ha dovuto rinunciare a fare nuovi acquisti di vestiti (dato che vola al 43 per cento nei ceti popolari, ma coinvolge anche il 26 per cento dei giovani e il 27 per cento delle donne).
Il 18 per cento dell’opinione pubblica non può cambiarsi gli occhiali per gli elevati costi che comportano (44 per cento nei ceti popolari e 22 per cento tra le donne).
Le difficoltà economiche coinvolgono anche la qualità dell’abitare. Il 14 per cento (33 per cento nei ceti popolari e 19 per cento tra i residenti nelle isole) non ha le risorse per vivere in una casa decente e in buone condizioni di manutenzione.
Infine, il 9 per cento (22 per cento nei ceti popolari) non ha la possibilità di mangiare a sufficienza e in modo vario. Al centro delle dinamiche di peggioramento non c’è solo lo scatto inflattivo e il caro energia, ma c’è anche la perdurante sensazione di fragilità dell’universo lavorativo.
L’Italia, con il suo 44 per cento, è al secondo posto nella classifica globale della paura di perdere il lavoro, superata solo dal Sudafrica, ed è anche un paese in cui il tema è particolarmente polarizzante dal punto di vista generazionale, di genere e di classe sociale.
La paura di perdere il lavoro, infatti, coinvolge il 67 per cento del ceto popolare, il 56 per cento dei giovani under trenta, il 49 per cento delle donne e il 50 per cento dei residenti al Sud e della generazione adulta.
Un dato di instabilità e incertezza esistenziale che porta con sé anche un altro processo di friabilità sociale: quello dell’indebolimento del capitale sociale posseduto dalle persone.
La maggioranza degli italiani, il 57 per cento, denuncia di avere meno relazioni sociali e amicali rispetto a cinque anni fa. Un processo di riduzione che colpisce, innanzitutto, le persone tra i trenta e i cinquant’anni e i ceti popolari (entrambi al 66 per cento), i residenti del centro Italia e del sud (62 per cento), nonché le donne (60 per cento).
Ai numeri del depauperamento del capitale sociale, si aggiungono quelli della percezione della crescita della povertà. L’81 per cento degli italiani avverte la crescita dei livelli di indigenza nel proprio comune.
Un aumento particolarmente visibile nelle isole (90 per cento) e in centro Italia (86), nonché tra i ceti popolari (89). Il quadro mostra l’urgenza per l’Italia di una vera strategia di riduzione delle diseguaglianze sociali, generazionali, territoriali e di genere.
Evidenzia l’esigenza di cautela nel momento in cui si mette mano alla stato sociale e ai suoi strumenti: mai come in questa fase occorre avere contezza che ci si muove all’interno di una cristalleria e non si può operare con l’accetta, ma si deve agire con accortezza e lungimiranza mettendo al centro la tutela delle persone che hanno perso il lavoro dopo il Covid, le scelte a sostegno dell’occupazione e nuove forme di regolazione del lavoro a tempo determinato che riducano gli abusi e accrescano le tutele, nonché un riequilibrio delle politiche di welfare.
Come sottolinea Carlo Trigilia, nel suo libro La sfida delle disuguaglianze, è necessario uno spostamento «dalle politiche passive a quelle attive, offrendo maggiori garanzie di reddito e copertura dei rischi a tutela degli outsider esclusi dai settori più protetti», ma anche «formazione, riqualificazione, innovazione, politiche di conciliazione e servizi di cura».
Un ridisegno volto a efficientare, non a tagliare, il sistema di welfare e a ridurre le fratture sociali che si stanno estendendo.
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