- Questa nostra epoca è molto diversa da quella in cui furono concepiti i moderni sistemi di welfare anche perché allora si poteva ritenere che il lavoro avrebbe certamente generato, a cascata, un finanziamento adeguato per la spesa sociale, redditi adeguati per tutti i componenti della famiglia e prestazioni di welfare generose.
- Oggi, invece, le cose stanno piuttosto diversamente ed è importante prendere atto che siamo di fronte a un trilemma.
- Consideriamo le seguenti tre condizioni: la quota di reddito assegnata al lavoro è limitata (e diseguale); le prestazioni del welfare sono eque; le risorse per il finanziamento del welfare provengono largamente dai contributi.
In numerosi paesi europei, e certamente in Italia, quando sono stati disegnati i sistemi di welfare si è scelto di puntare soprattutto sui contributi sul lavoro per finanziarli. Ad esempio nel nostro paese, a metà degli anni Novanta, più di due terzi della spesa sociale complessiva era coperta da contributi commisurati alle retribuzioni dei lavoratori. Per questo le risorse di cui dispone il welfare dipendono più che dal reddito nazionale complessivo, dal modo in cui quest’ultimo si distribuisce tra lavoro e capitale.
Nel corso degli ultimi 2 o 3 decenni la quota di reddito appropriata dal lavoro è caduta quasi ovunque e in alcuni casi, tra i quali c’è quello del nostro paese, in modo netto. Una ragione, non l’unica, è la caduta della quota di reddito appropriata dal lavoro autonomo, a sua volta dovuta all’esplosione di attività autonome poco remunerate che, peraltro, sovente nascondono lavoro dipendente a basso costo. Osserviamo alcuni dati di fonte Eurostat. In Italia, nel 2018, la quota di spesa sociale finanziata dai contributi era del 51,1 per cento, in netta diminuzione rispetto al 56,2 per cento del 2005 e al 67,6 per cento del 1995. In rapporto al Pil nel nostro paese i contributi sociali sono passati dal 17,2 per cento nel 1995 al 15,2 per cento nel 2018.
Sulla riduzione della quota di contributi hanno certamente influito scelte politiche orientate a ridurre il costo del lavoro (ad esempio, gli esoneri contributivi introdotti in Italia dal Jobs Act) e infatti i contributi a carico dei datori di lavoro sono passati dal 12,8 per cento del Pil nel 1995 al 10,7 per cento nel 2018 e, in termini di risorse totali del welfare, dal 50,3 per cento nel 1995 al 36 per cento nel 2018. Tuttavia, non vi è dubbio che un fenomeno importante sia stato la tendenza a cadere della quota di reddito da lavoro.
Quindi se non si vuole contrarre in modo significativo la spesa sociale – e in particolare la spesa per pensioni – per assicurare la sostenibilità finanziaria del welfare diventa necessario il ricorso ad altre fonti e in particolare alla fiscalità generale, come del resto è già accaduto. Si può così anche correggere l’opinione, piuttosto diffusa, secondo cui il ricorso a queste fonti di finanziamento sia da imputare alla eccessiva e crescente generosità delle prestazioni sociali. Si può aggiungere che se fenomeni come l’invecchiamento della popolazione accresceranno la pressione sui sistemi di welfare il problema della declinante dinamica dei contributi si farà necessariamente più serio. E tanto più serio quanto più procedesse la sostituzione del lavoro umano con i robot che, naturalmente, non pagano contributi.
I “fatti stilizzati”
La dinamica della disuguaglianza e della distribuzione dei redditi minaccia, dunque, decisivi equilibri istituzionali costruiti, in molti casi, su un’ipotesi che in altre epoche appariva giustificata dall’evidenza storica e cioè che la distribuzione funzionale del reddito tra capitale e lavoro rimanesse sostanzialmente costante nel corso del tempo. Autorevoli economisti considerarono questo uno dei “fatti stilizzati” del capitalismo.
Peraltro la disuguaglianza indebolisce i sistemi di welfare anche al di là del suo impatto sulla quota di lavoro. Come abbiamo già argomentato, sta crescendo la disuguaglianza nei redditi percepiti dai lavoratori sostanzialmente perché della ridotta “quota del lavoro” si appropriano in misura crescente i percettori di redditi molto elevati con la conseguenza di condannare sempre più lavoratori alla condizione di working poor, con retribuzioni (e contribuzioni) molto limitate, anche a causa di part-time involontari. Di certo il fenomeno dei working poor non era presente alla mente di coloro che hanno concepito e creato i moderni sistemi di welfare, ma anche questo fenomeno finisce per incidere sia sulla loro sostenibilità, condizionando l’ammontare di risorse a disposizione, sia sull’adeguatezza e l’equità delle prestazioni erogate. E tanto più è così quanto più è stretto il legame fra contributi versati (dunque salari percepiti) e prestazioni ricevute, come nel sistema pensionistico italiano.
Questa nostra epoca è molto diversa da quella in cui furono concepiti i moderni sistemi di welfare anche perché allora si poteva ritenere che il lavoro avrebbe certamente generato, a cascata, un finanziamento adeguato per la spesa sociale, redditi adeguati per tutti i componenti della famiglia e prestazioni di welfare generose. Oggi, invece, le cose stanno piuttosto diversamente ed è importante prendere atto che siamo di fronte a un trilemma. Consideriamo le seguenti tre condizioni: la quota di reddito assegnata al lavoro è limitata (e distribuita in modo molto diseguale); le prestazioni del welfare sono eque; le risorse per il finanziamento del welfare provengono largamente dai contributi. Il trilemma consiste nel fatto che possiamo soddisfare due, a piacimento, di queste condizioni ma non possiamo conseguirle tutte e tre simultaneamente.
Quindi le strade che si hanno davanti sono tre (più le loro possibili combinazioni): ridare centralità al lavoro, aumentando la quota di reddito nazionale a esso destinata e riducendo la diseguaglianza al suo interno; ridurre le prestazioni del welfare; modificare le forme di finanziamento del welfare. Sarebbe bene che su questo menù riflettesse chi ha a cuore il futuro della protezione sociale e, in particolare, del sistema previdenziale.
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