Esattamente il day after della sentenza di primo grado del tribunale di Milano che ha assolto «perché il fatto non sussiste» la società e i suoi manager dalle accuse di presunta corruzione in Nigeria, giovedì scorso l’Eni ha annunciato ufficialmente di aderire all’ipotesi di sanzione concordata avanazata dalla Procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta corruzione internazionale inerente alcune attività petrolifere in Repubblica del Congo.

La richiesta

«In seguito alla derubricazione del reato contestato da parte del pubblico ministero in induzione indebita», Eni ha presentato richiesta di sanzione concordata alla Procura per un corrispettivo pari a 11,8 milioni di euro. Diverse le domande che rimangono aperte su questo inatteso patteggiamento – in primis se anche i quattro indagati si accoderanno alla scelta della società - concordato senza ammissione di alcuna colpa dal cane a sei zampe. Per provare a capire meglio è utile ripercorre la storia dell’indagine.

La direttiva del 2013 sul petrolio

Tutto è iniziato il 15 aprile del 2013 a Brazzaville, la capitale della Repubblica del Congo, quando il presidente Denis Sassou Nguesso ha varato una nuova direttiva sugli idrocarburi per gettare le basi per lo sviluppo dell’industria energetica congolese, incentivando l'ingresso delle società locali nelle concessioni petrolifere fino ad allora quasi interamente in mano a multinazionali straniere.

Sassou Nguesso stava dicendo a Eni e Total, le due oil major che da sempre si spartiscono le riserve dell'ex colonia francese, di cedere quote delle proprie concessioni una volta arrivate al momento del rinnovo. La direttiva stabiliva però che le quote non venissero affidate alla società petrolifera statale congolese, Snpc, ma a imprese private locali del settore.

Al momento della firma della legge, in Congo c'era in pratica solo una società privata che faceva estrazione di gas e petrolio: la Africa Oil and Gas Corporation.

Fondata nel 2001 da Denis Gokana, consigliere speciale di Sassou Nguesso per le questioni petrolifere e membro del suo stesso gruppo etnico Mbochi, Aogc non era molto nota a livello internazionale, se non per il fatto di essere sospettata di fungere da conto corrente occulto della famiglia presidenziale.

Una sentenza del 2005 dell’Alta Corte di Giustizia inglese, infatti, attesta che in un paio d'anni il governo del Congo aveva trasferito sui conti della Aogc e di altre società riconducibili a Gokana almeno 472 milioni di dollari: soldi usati per acquistare dall'azienda di Stato Snpc, guidata per anni sempre da Gokana, petrolio a prezzi molto più bassi di quelli di mercato, e poi rivenderlo a trader indipendenti incassando laute plusvalenze.

Nonostante tutto questo, la Aogc entra subito nella partita aperta dalla nuova direttiva del presidente congolese. Ed Eni diventa il suo primo partner.

Il 18 novembre del 2013 il Congo rinnova all'azienda italiana quattro licenze per l’estrazione di petrolio. Si tratta dei permessi di esplorazione chiamati Marine VI e Marine VII: in particolare dei campi Djambala 2, Foukanda 2, Kitina 2 e Mwafi 2. Al contempo, però, Eni cede alla Aogc quote comprese tra l’8 e il 10 per cento di questi quattro giacimenti.

I dubbi sui rapporti con Aogc

LaPresse

Il 14 aprile 2015 The Times solleva dubbi sull’operazione. «Non siamo stati noi a sceglierla», rispose Claudio Descalzi alle domande di Re:Common e Global Witness, quando per la prima volta la partnership con Aogc fu portata all'attenzione degli azionisti di Eni, il 13 maggio del 2015.

Nell’autunno dello stesso anno, citando un rapporto redatto dallo studio legale francese Ghelber&Gourdon per conto della Repubblica del Congo, L’Espresso rivela che ai vertici di Aogc ci sono due pubblici ufficiali congolesi: Lydie Pongault, consigliere di Sassou Nguesso per la cultura, e Dieudonné Bantsimba, capo di gabinetto del ministero del Territorio. Eni precisa che le cariche di Bantsimba e Pongault «non sono ritenute in conflitto con la posizione di soci, considerate le diverse aree di attività che nulla hanno a che vedere con il settore dell’oil & gas».

Si scoprirà in seguito che non la pensa allo stesso modo Luigi Zingales, componente indipendente del consiglio d'amministrazione di Eni, che proprio perché critico della partnership con Aogc il 15 luglio del 2015 annuncia le sue dimissioni irrevocabili per «non riconciliabili differenze di opinione sul ruolo del consiglio nella gestione della società».
Nel giugno 2016 Re:Common e Global Witness presentano un esposto alla Procura di Milano sul caso e il 6 luglio del 2017 la Guardia di Finanza, su mandato dei magistrati milanesi, notifica un avviso di garanzia a Eni per corruzione internazionale in Congo e sequestra gli accordi sottoscritti dalla società a Brazzaville fra il 2013 e il 2015.

Nel 2013, proprio mentre riceveva da Eni le quote di partecipazione in Marine VI e Marine VII, la Aogc perdeva stranamente quote in un altro tesoro congolese: il giacimento Marine XI.  Il 23 per cento delle quote di questo passavano a un'impresa fino ad allora sconosciuta, la World Natural Resources.

Tra le persone fisiche finite sotto indagine, primo fra tutti Roberto Casula, all'epoca Chief Development Operations & Technology Officer di Eni, in pratica il numero due dell'amministratore delegato Claudio Descalzi.

Per la procura di Milano si profila un presunto scambio del rinnovo delle quattro licenze petrolifere Eni con le quote di partecipazione in quegli stessi giacimenti alla Aogc riconducibile a pubblici ufficiali congolesi collegati al presidente Sassou Nguesso.

Insomma, le tangenti non consisterebbero in bonifici o valigie di contanti, ma in pezzi di giacimenti petroliferi, che in teoria garantiscono rendimenti costanti nel tempo. Ma non solo. Secondo la procura di Milano, lo schema prevedeva anche la «retrocessione di una parte della tangente».

Nel decreto di perquisizione del 30 marzo 2018 si legge che: «Gli accordi illeciti contemplavano l'attribuzione del 23 per cento nella licenza Marine XI a favore di World Natural Resources Limited», la società che secondo i magistrati Paolo Storari e Sergio Spadaro è riconducibile ad altre tre persone indagate per corruzione internazionale: Alexander Haly, Ernest Akinmade e Maria Paduano. Tutti “soggetti collegati ad Eni spa”.

I conflitti di interesse

Purtroppo documenti importanti sequestrati nell’ufficio di Haly a Montecarlo non sono mai arrivati a Milano nonostante le ripetute rogatorie internazionali. Un vero scandalo per la cooperazione penale all’interno dell’Ue.

Nel frattempo viene iscritto tra gli indagati anche l'ad di Eni Claudio Descalzi per omessa dichiarazione di conflitto d'interessi, in relazione al ruolo della moglie congolese in alcune società che avrebbero beneficiato di prestiti per 104 milioni di dollari per servizi forniti nel paese africano tra il 2012 e il 2017.

Accusa sempre respinta dal manager che ha affermato che le operazioni contestate “non sono mai state oggetto di mie valutazioni o decisioni in quanto totalmente estranee al mio ruolo”.
E così arriviamo ai giorni nostri.

Domani il Gip Sofia Fioretta dovrebbe emettere la sentenza di patteggiamento sul caso. Non è chiaro se anche la posizione di Descalzi con l’altra accusa sarà archiviata, né cosa decideranno di fare Casula e i suoi sodali.

Quando l’Eni verserà gli 11 milioni non si potrà più dire che la Procura di Milano si accanische sulla società spendendo tempo e risorse in indagini che non portano a nulla.

Un’ombra e diverse domande aperte però rimangono sull’operato della multinazione italiana e del suo capo nel regno di Sassou Nguesso.

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