- il professore di geografia politica dell’università Milano-Bicocca Marco Grasso si è dimesso da direttore dell’unità di ricerca Antropocene, a seguito di un accordo tra Bicocca e Eni da otto milioni e mezzo di euro.
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L’ufficio stampa della Bicocca fa sapere che i progetti «mirano a sviluppare soluzioni innovative sempre più rispettose dell’equilibrio climatico e ambientale». Ma la mancata trasparenza dell’accordo di ricerca non aiuta.
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Tra i progetti è pacifico ce ne sia uno che riguarda i reservoir fratturati, ovvero giacimenti di gas o petrolio (e non solo) esausti in cui potrebbe essere stoccata la CO2, che sono direttamente collegati al fossile.
Quando inizia a raccontare la sua storia, il professore di geografia politica dell’università Milano-Bicocca Marco Grasso lo mette subito in chiaro. Il motivo per cui si è dimesso da direttore dell’unità di ricerca Antropocene, a seguito di un accordo tra Bicocca e Eni, «non è ideologico, ma scientifico». Il MIT ha pubblicato lo scorso anno un suo libro sulla responsabilità dell’industria petrolifera nella crisi climatica, «e non potevo fare finta di niente davanti alla comunità scientifica né davanti allo specchio», afferma.
Budget da otto milioni e mezzo
Il primo accordo di ricerca sulla transizione energetica siglato dalla Bicocca con Eni ha un budget da otto milioni di euro, di cui un milione e mezzo investiti dall’azienda. L’accordo non è pubblico e per mesi il professor Grasso ha chiesto dettagli alla governance universitaria, senza successo. Richiesto da Domani all’ufficio stampa, non è stato fornito. Sono le parole “transizione energetica”, abbinate ai piani dell’industria petrolifera e legate al nome dell’università milanese, ad aver mosso le dimissioni di Grasso lo scorso novembre.
«La transizione energetica non può contemplare ancora l’utilizzo di combustibili fossili, che andrebbero abbandonati gradualmente. L’industria petrolifera è però intenta a prolungarne quanto più possibile l’utilizzo. Gli obiettivi virtuosi che dichiara al 2050 arriveranno troppo tardi». Due sono le alternative messe in campo: l’idrogeno blu, che al momento è prodotto in larga parte a partire dal gas e quindi non garantisce l’abbandono dei fossili, e la cattura dell’anidride carbonica (Ccs) con conseguente stoccaggio nei fondali marini.
Un progetto, quest’ultimo, che ha visto l’interesse di Eni nel nord Adriatico, vicino Ravenna, e che il professor Vincenzo Balzani critica aspramente. Ordinario all’Università di Bologna e chimico che nel 2016 ha sfiorato il Nobel, Balzani è coordinatore del gruppo Energia per l’Italia che riunisce scienziati, accademici e ricercatori al fine di rendere accessibile la conoscenza scientifica sul tema. Agli stati generali del governo Conte I, ai quali era stato invitato, aveva portato una relazione chiara: sì alle energie rinnovabili, basta sussidi e agevolazioni alle fonti fossili e infine una critica ai progetti di stoccaggio di anidride carbonica, potenzialmente rischiosi e inutili se non adottati a livello globale. La direzione intrapresa dal governo è stata però un’altra.
«Eni nella sua idea di transizione energetica punta sull’idrogeno blu, prodotto a partire dal metano e che in teoria non causerebbe emissioni di CO2», dice Balzani, chiarendo che attualmente il costo di produzione è minore dell’idrogeno verde ovvero totalmente puro.
Le dimissioni
A luglio Grasso chiede alla rettrice della Bicocca Giovanna Iannantuoni informazioni in merito all’accordo siglato con l’azienda Eni, e viene rimandato al pro rettore vicario. Nelle mani di Grasso arriva solo una sintesi del documento, che però non dice molto. «Ho avuto la sensazione che l’università si chiedesse il perché della mia richiesta di informazioni», commenta. Dopo mesi di silenzio su un possibile incontro in merito, Grasso ha poi scritto e pubblicato una lettera aperta in cui denunciava il fatto e annunciava le dimissioni. Nessuna reazione da parte dell’università, almeno formalmente, mentre gli studenti si sono mobilitati.
L’ufficio stampa della Bicocca fa sapere che «i progetti che attualmente l’università sta sviluppando, sulla base di accordi con le più importanti realtà industriali italiane e internazionali, mirano a sviluppare soluzioni innovative sempre più rispettose dell’equilibrio climatico e ambientale». E ancora che i progetti saranno «nell’ambito della transizione energetica e non contemplano nessuna applicazione che riguardi il fossile». La mancata trasparenza dell’accordo di ricerca non aiuta, ma tra i progetti è pacifico ce ne sia uno che riguarda i reservoir fratturati, ovvero giacimenti di gas o petrolio (e non solo) esausti in cui potrebbe essere stoccata la CO2, che sono direttamente collegati al fossile, modello criticato da Balzani e non solo.
L’organizzazione politica universitaria Studenti Indipendenti era già venuta a conoscenza dell’accordo in quanto membro del Consiglio di amministrazione universitario. «La partecipazione universitaria c’è ma è uno specchietto per le allodole, e questo caso ne è la dimostrazione», dice raggiunto al telefono Francesco Aloisi, portavoce. Sul punto l’ufficio stampa dell’università non replica, limitandosi a confermare che gli spazi di dialogo con gli studenti esistono. Ciò che però manca sottolinea Studenti Indipendenti è un vero riscontro partecipato e inclusivo alle decisioni della macchina universitaria.
L’associazione studentesca ha organizzato un incontro aperto sull’accordo che si è svolto a dicembre, ha raccolto studenti di altre università milanesi, movimenti ecologisti, ricercatori e anche i professori coinvolti nei progetti finanziati dall’intesa. «Il dialogo è stato molto interessante, ma la posizione dell’ateneo rimane la stessa. Se però il lavandino di casa perde acqua lo chiudiamo, e solo dopo asciughiamo quella fuoriuscita», dice Aloisi. Una metafora per dire che estrarre combustibili fossili solo perché in futuro potremmo avere la possibilità di immagazzinare la Co2 che ne deriva è come lasciare aperto il lavandino, e asciugare la perdita allo stesso tempo.
Una questione di trasparenza
L’accordo di ricerca Bicocca-Eni non è unicamente una questione ecologista, ma anche di trasparenza e di partecipazione all’interno dell’università. «La nostra impressione è che l’università sia un ente passivo che non si riconosce come attore di cambiamento, che può influire non solo a livello accademico, ma anche nazionale e globale», continua Aloisi. Un cambio di passo, e quindi di futuro, è infatti già in atto. Sta succedendo negli ultimi anni soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove per decenni la ricerca scientifica sul tema è stata finanziata proprio dall’industria petrolifera: università come Princeton, Harvard, Oxford, Cambridge e altre decine si sono dissociate da molte aziende del settore, rinunciando a milioni di dollari. «Una scelta netta, come quella di alcune riviste scientifiche che non pubblicano più studi finanziati da industrie petrolifere», commenta il professor Grasso.
Al momento comunque nei corridoi dell’università Bicocca e anche in altri atenei milanesi l’attenzione rimane alta, sia tra i professori che tra gli studenti.
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