Quasi fermo l’impianto di Taranto. Nuova cassa integrazione per metà dei 10mila dipendenti. La Cisl: «Nel piano industriale dei commissari nessuna proposta concreta per il rilancio»
L’uscita di scena di ArcelorMittal non ha risollevato le sorti dell’ex Ilva. Dopo il commissariamento, ormai cinque mesi fa, il futuro di Acciaierie d’Italia è più incerto che mai. Le novità degli ultimi giorni, con la cassa integrazione per oltre cinquemila dipendenti e la sentenza della Corte Ue sui danni ambientali provocati dall’acciaieria, rischiano di complicare ulteriormente la situazione.
Il governo, tramite la terna di commissari a cui è affidata la gestione degli impianti, è impegnato a trovare i possibili investitori per il gruppo siderurgico, ma deve prima pensare a garantire la sopravvivenza della fabbrica.
Sempre più cassa
La scorsa settimana Acciaierie d’Italia ha comunicato di aver trasmesso al ministero del Lavoro l’istanza per l’avvio della nuova Cassa integrazione straordinaria che riguarderà fino a 5.200 lavoratori di tutti gli stabilimenti. Una mossa a sorpresa, con le organizzazioni sindacali che dopo i primi colloqui con i commissari si attendevano una nuova convocazione per decidere di comune accordo il rilancio dell’acciaieria. L’incontro a palazzo Chigi è in calendario per martedì prossimo, ma a decisione già presa.
I 5.200 nuovi cassaintegrati vanno ad aggiungersi ai 2.200 operai ancora in cassa integrazione dalla vecchia Ilva in amministrazione straordinaria, commissariata nel 2015. Il piano di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria prevede la cassa integrazione per 4.400 lavoratori (649 tra impiegati, quadri e intermedi) dello stabilimento di Taranto e 800 negli altri impianti del gruppo (400 a Genova).
Altiforni spenti
I vertici hanno motivato questo provvedimento con i bassi livelli di produzione degli impianti, con quasi tutti gli altiforni spenti che richiedono una manutenzione straordinaria che stenta a decollare per la scarsa disponibilità di fondi.
«Lo stato di fatto venutosi a creare, quale risultante di più fattori concorrenti, impone un deciso e pronto intervento per riequilibrare i fattori produttivi mediante l’adozione di un piano di risanamento finanziario e di riassetto industriale, oggi imposto anche dagli obblighi connessi all’ammissione alla amministrazione straordinaria», si legge nella nota diffusa da Acciaierie d’Italia.
Proprio su questo punto i sindacati sono pronti a dare battaglia: «Non è vero che i soldi non ci sono, se si utilizzassero i fondi del Pnrr e i fondi Ue per la decarbonizzazione ci sarebbe almeno un miliardo di euro a disposizione», dichiara Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil, che è molto critico sull’operato del governo e dei suoi commissari chiamati a gestire il salvataggio e il rilancio della fabbrica.
«Nell’ultimo incontro a palazzo Chigi», spiega Scarpa, «ci è stato presentato un piano industriale che non era un piano vero e proprio, con quattro slide messe in croce e nessuna proposta concreta. I commissari portano avanti un’operazione d’immagine per favorire l’arrivo di possibili acquirenti, ma intanto la fabbrica è ferma».
Un tasto dolente è quello della manutenzione, straordinaria e ordinaria, che va garantita per assicurare il corretto funzionamento degli impianti ma richiede somme ben più ingenti rispetto a quelle già stanziate, con un prestito ponte da 320 milioni di euro e un altro finanziamento da parte di Sace da 160 milioni.
«I commissari devono premere su questo tasto e chiedere un impegno maggiore al governo», continua Scarpa, «la manutenzione è un tema costante che richiede un lavoro continuo, non si può andare avanti con degli interventi una tantum».
Stallo totale
La mancanza di fondi per la manutenzione ordinaria finisce per rendere più urgenti gli interventi straordinari, che però hanno bisogno di finanziamenti ancora maggiori.
Per il momento, però, né il governo né i privati sembrano disposti a elargire nuovi fondi. Un circolo vizioso che continua ad alimentarsi, e che ha portato a uno stallo totale della produzione: al momento a Taranto sono impiegati circa la metà dei dipendenti dello stabilimento, che a rotazione vengono lasciati a casa. Una soluzione che viene spiegata con i bassi livelli di produzione.
La sentenza europea
Secondo i piani approvati negli anni scorsi, l’acciaieria di Taranto, la più grande d’Europa per dimensioni, era destinata a tornare a una produzione di almeno sei milioni di tonnellate d’acciaio ogni anno. Oggi ne produce meno della metà. Un danno non solo per i lavoratori dell’azienda e per quelli dell’indotto, ma per l’intero sistema Paese. E ai danni sociali vanno aggiunti quelli ambientali, come ha ribadito due giorni fa una sentenza della Corte Ue.
Il pronunciamento della Corte di giustizia dell’Unione europea reso noto martedì scorso aggiunge un’incognita supplementare sul futuro dell’ex Ilva. «In caso di pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana, il termine per applicare le misure di protezione previste dall’autorizzazione all’esercizio non può essere prorogato ripetutamente e l’esercizio dell’installazione deve essere sospeso», scrivono i giudici del Lussemburgo, che ricordano anche i vari provvedimenti giudiziari per ridurre l’impatto dello stabilimento di Taranto.
Toccherà comunque al tribunale di Milano valutare se effettivamente la proroga ripetuta delle misure di protezione sia stata effettivamente eccessiva. Mentre una nota dell’amministrazione straordinaria spiega che la sentenza «fa riferimento a fatti risalenti al 2013, oggi ampiamente superati grazie agli ingenti investimenti effettuati per il risanamento ambientale». Investimenti che però sono ancora insufficienti, attacca la Fiom, «per garantire il rilancio del processo produttivo e della decarbonizzazione».
E così lo spettro della chiusura, con il disastro sociale che comporterebbe, continua ad aleggiare su Taranto.
© Riproduzione riservata