Ha quasi raggiunto l’età della pensione e scrive: «Ho letto i vostri articoli sull’ex Ilva di Taranto, sono un operaio di una ditta dell’appalto. Ho già segnalato la mia situazione allo Spesal (n.d.r carabinieri per la sicurezza dei luoghi di lavoro) ma il giudice per le indagini preliminari del tribunale ha ritenuto di archiviare la mia denuncia».

La persona che chiede di essere tutelata con l’anonimato, scrive dopo aver letto la nostra inchiesta sullo “stato di salute”, cioè sulla condizione degli impianti ex Ilva, così come rivelate dai commissari straordinari durante un recente incontro in Confindustria, e ci racconta – contratto alla mano – di essere stato assunto con un contratto multiservizi, anche se è un addetto alle pulizie industriali che sono altamente pericolose, ed è in realtà un lavoratore qualificato, impiegato con le certificazioni di autista per i grossi tir. Ma tant’è. È la normalità nel comparto industriale locale.

Identikit del lavoratore di Ilva

Infatti, secondo i dati della Nidil Cgil di Taranto, il sindacato che si occupa dei precari assunti dalle agenzie interinali: «Il 50 per cento degli operai che lavorano per le imprese dell’indotto dell’area industriale di Taranto, che comprende il porto, le raffinerie, le centrali elettriche e, ovviamente l’intera Ilva, hanno un contratto a termine». Non solo. Il loro identikit professionale è quello degli operai che negli ultimi anni hanno perso la vita maggiormente mentre lavoravano all’interno della zona industriale di Taranto. Una media di quasi uno all’anno.

Negli ultimi venti anni. L’ultimo in ordine di tempo è morto quest’estate. Si chiamava Antonio Bellanova, ed è rimasto schiacciato sotto il peso di una ecoballa di rifiuti da mille chili mentre era impegnato nelle operazioni di stoccaggio nel porto di Taranto, all’interno della stiva di una nave battente bandiera panamense. Così, Tonino, come lo chiamavano gli amici della curva che gli hanno dedicato una maglietta con su scritto «vive», a 31 anni, ha lasciato una moglie di 24 anni e tre figli piccoli.

Anche Bellanova era un lavoratore somministrato con un contratto Multiservizi, ed è addirittura ancora in dubbio se al porto, quel giorno, non ci doveva proprio essere, come un’inchiesta giudiziaria tuttora in corso condotta dai carabinieri dello Spesal e coordinata dal pubblico ministero Antonio Natale, sta cercando di stabilire; e come aveva denunciato la Cgil: «I precari che lavorano per le ditte degli appalti vengono impiegati nelle lavorazioni più pericolose, spesso in assenza di adeguata formazione. Basti pensare che, oltre a Bellanova, su quella nave c’erano altri cinque lavoratori», si legge in una nota.

L’intreccio con la politica

Erano tutti operai assunti con contratto a termine dall’Ecologica Spa, una delle imprese dell’indotto con il giro d’affari più ampio, 6 milioni di euro di capitale versato e trecento dipendenti, secondo gli ultimi dati camerali. Ma questa è anche una tra le tante aziende dell’indotto che negli ultimi mesi ha reclamato crediti vantati nei confronti di Acciaierie d’Italia.

Sono tra quelle che trattano i rifiuti, effettuano le bonifiche, puliscono gli ambienti dell’ex Ilva. Alcuni nomi di queste imprese risultano tristemente famose, come la Steel Service, legata alle morti di giovani operai come Giacomo Campo, altre aziende in declino oggi, sono state legate, invece, a doppio filo con il mondo politico locale.

Un esempio è la Iris Srl, ora fallita con un buco di milioni di euro e riconducibile all’ex parlamentare di Forza Italia Pietro Franzoso (oggi deceduto), che con la sua azienda ha giocato un ruolo importante nelle campagne elettorali regionali e nazionali dei primi anni Duemila, quelle che vedevano sempre il trionfo della coalizione di centrodestra guidata da Raffaele Fitto.

E, proprio nella regione dove si voterà l’anno prossimo per il rinnovo delle cariche politiche, in Puglia i voti che saranno raccolti all’interno di queste aziende “pesano” ancora, perché significano appalti, soldi, potere, assunzioni.

Già, perché il sistema della grande fabbrica di Taranto comprende anche un aspetto poco raccontato: quello del potere politico che esprime sul territorio pugliese l’ex Ilva. Un aspetto che giova ricordare nell’Italia del 2024 che ha scoperto tardi l’esistenza del voto di scambio, e che invece viene da molto lontano: dall’idea che le imprese e, in questo caso, i colossi industriali sono i luoghi di scambio buoni per le campagne elettorali e per ingrassare carriere politiche, in spregio ai vincoli ambientali e a ogni forma di giustizia sociale, come emerge dalle inchieste di queste giornale sul sistema del porto di Genova. E come dice la storia dell’acciaieria di Taranto, del resto.

Operai senza tutele

Quando incontriamo l’uomo che ci ha scritto e che chiameremo Fernando (nome di fantasia) in un bar di un piccolo comune in provincia di Taranto, e che prima di ammalarsi faceva l’autista di uno dei tanti tir che trasportano carichi di fanghi e rifiuti industriali, ci mostra l’esito di una tac toracica: «Un nodulo polmonare da 12 mm, è la diagnosi. Mi hanno cambiato la mansione dopo la visita con la Asl, perché i mezzi su cui lavoravo erano sporchi, pieni di polvere di minerale, non li lavano quasi mai, e non potevo nemmeno stare più nell’area a caldo con questa patologia». Racconta: «Oggi pulisco gli spogliatoi, per l’azienda sono un addetto alle pulizie civili, anche se lavoro nella zona industriale più inquinata d’Italia e forse d’Europa». 

Aggiunge l’operaio, a cui manca qualche altro anno per andare in pensione: «Proprio negli ultimi giorni mi hanno chiamato per dirmi che una volta a settimana dovrò andare in un altro reparto, non posso rifiutarmi altrimenti mi hanno minacciato di mettermi in ferie forzate».

E proprio da quegli spogliatoi arrivano dei video che pubblichiamo in questa pagina e che dimostrano il grado di fatiscenza e di sporcizia. I bagni e le docce, racconta chi ci lavora, sono spesso inagibili. Nelle immagini si vede un muro ricoperto di formiche. E nei filtri dei condizionatori c’è un dito di polvere nera che fa capire il livello di contaminazione dell’aria all’interno degli impianti.

Un altro suo collega commenta: «Siamo i lavoratori tappabuchi, non abbiamo gli stessi diritti contrattuali dei lavoratori metalmeccanici, possono spostarci continuamente a seconda di dove serviamo: dalla raffineria al siderurgico, dalle banchine del petrolchimico del porto di Brindisi a quello del porto di Taranto, e viceversa».

Sono gli operai senza tutele, quelli che si infortunano di più e guadagnano di meno, quelli le cui denunce scritte vengono archiviate in procura perché considerate sgrammaticate, e che una volta l’anno muoiono.

Nella città in cui se un gruppo di persone espone uno striscione allo stadio per le morti sul lavoro, viene multato pesantemente dalla polizia. È successo due volte nell’ultimo anno sulla gradinata dello stadio di calcio Erasmo Iacovone. È accaduto varie altre volte, anche a qualche attivista, di essere denunciato e finire a processo, per le scritte sui muri contro l’inquinamento della fabbrica che, da queste parti, da sempre, tutto controlla, anche le campagne elettorali.

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