Fra dicembre 2002 e febbraio 2003 il governo Berlusconi varò il provvedimento Salva-calcio, che finì immediatamente nel mirino della commissione europea e venne successivamente riformulato, ma non cancellato. Vent'anni dopo la scena si ripete senza che il calcio italiano guarisca dai propri vizi
- Il decreto legge del 24 dicembre 2002, convertito in legge a febbraio 2003, permetteva di spalmare in dieci anni l’ammortamento sui diritti economici dei calciatori, gonfiato a dismisura dalla follia gestionale dei club.
- Le società calcistiche italiane non erano riuscite a riprendersi dall’impatto della sentenza Bosman (dicembre 1995) che, eliminando il meccanismo dell’indennizzo da formazione, aveva creato una voragine nei conti.
- Vent’anni fa era necessario che per varare un provvedimento del genere entrasse in campo un proprietario di club-premier. Adesso basta un proprietario di club-senatore. L’asticella si è nettamente abbassata.
Vent’anni fanno in fretta a passare. Talmente in fretta da suscitare l’impressione che nulla sia mutato.
Così è nel mondo del calcio, dove tutto cambia affinché nulla cambi. E dove l’elemento massimo dell’immobilità viene dall’abitudine di risolvere uno stato di grave crisi economico-finanziaria con provvedimenti legislativi di favore, che offrono la scappatoia della lunga dilazione laddove si dovrebbe esigere il tutto e subito da soggetti capaci soltanto di produrre debito e di chiedere il non richiamo alle responsabilità.
Per questo non sembra proprio un caso se, nelle settimane a cavallo fra fine 2022 e inizio 2023 in cui al calcio viene concesso il provvedimento spalma-tasse e si cerca di intervenire con una norma sulle plusvalenze incrociate, ricorre il ventennio dal famoso decreto Salva calcio (o spalma -debiti) che provocò l’ira della Commissione Ue. Un’ira che invero non produsse effetti particolarmente profondi, né ha messo il calcio italiano nelle condizioni di tirarsi fuori dal pantano economico e gestionale in cui si trovava a inizio anni Duemila.
Bosman e Bolkestein
Era la vigilia di Natale 2002 quando il governo guidato da un signore di nome Silvio Berlusconi, che casualmente era anche il proprietario di una delle società più importanti e indebitate del nostro calcio (il Milan), emanava il decreto legge 24 dicembre 2002 numero 282.
Formalmente il contenuto del decreto, di natura fiscale, riguardava scudo fiscale, dismissione immobili e partite Iva. Ma il suo oggetto più importante era la concessione, alle società del calcio professionistico italiano, della possibilità di spalmare su un arco decennale una massa debitoria mostruosa. Si parlava di circa 500 milioni di euro. Una cifra che sarebbe imbarazzante adesso, figurarsi vent’anni fa.
A determinare quell’enorme massa debitoria erano state diverse cause. Certamente aveva contribuito l’abitudine dei club di comprare i diritti dei calciatori a cifre indecenti.
Persino più di adesso, facendo le proporzioni, perché all’epoca poteva capitare pure alle medio-piccole di impegnare decine di milioni di euro per acquisire un calciatore. Ma un colpo pesante venne dato dalla sentenza Bosman del 15 dicembre 1995. Che spazzando via il meccanismo schiavista dell’indennizzo di formazione, da corrispondere alle società per il trasferimento di un calciatore anche a contratto scaduto, aveva provocato una voragine patrimoniale nei bilanci dei club.
L’inizio delle plusvalenze
A questo colpo devastante i club del nostro calcio professionistico reagirono in modo pasticciato. Fu in quel periodo che cominciò il ricorso alle plusvalenze incrociate, con Inter e Milan che si scambiavano a cifre esagerate calciatori delle formazioni Primavera. Ma la cosa, oltre a provocare un’inchiesta della Procura della repubblica di Milano che si risolse in un nulla di fatto per decisione del gip, non poteva reggere.
Era necessario spalmare gli ammortamenti generati dalle valutazioni esagerate dei diritti economici sui calciatori. E fu così che venne varato il decreto Salva calcio, convertito in legge (la numero 27) il 21 febbraio del 2003. Ciò che provocò l’indignazione non soltanto di parte dell’opinione pubblica italiana, ma anche dei club europei che vedevano nel provvedimento legislativo italiano un elemento di concorrenza sleale. Motivo, quest’ultimo, che determinò l’ingresso in scena del commissario europeo competente, l’economista olandese Frits Bolkestein.
Da un premier a un senatore
L’uomo il cui nome ricorre nel dibattito pubblico soprattutto per via della famosa e contestata direttiva puntò immediatamente il provvedimento voluto dal governo Berlusconi per salvare i club dalle loro stesse malefatte economiche. Ne scaturì una procedura d’infrazione aperta dalla Commissione europea contro il nostro paese.
Il motivo del provvedimento era individuato nella violazione delle norme europee sulla contabilità «in quanto il bilancio di un certo numero di club sportivi non dà un’immagine corretta e veritiera». Bolkestein minacciava di portare la questione davanti alla Corte di giustizia europea e a quel punto si giunse a una trattativa. Da cui venne fuori un compromesso: il periodo di spalmatura degli ammortamenti fu dimezzato da dieci a cinque anni.
Non proprio una dimostrazione di fermezza da parte delle istituzioni comunitarie. E forse proprio il fatto che, tutto sommato, allora i nostri club l’avessero scampata ha fatto sì che vent’anni dopo si ritrovassero punto e a capo. Con una differenza sostanziale. Che vent’anni fa serviva un proprietario di club-capo di governo per promuovere l’ammuina. Adesso basta un proprietario di club-senatore: Claudio Lotito della Lazio, architetto del provvedimento spalma-tasse. L’asticella si è nettamente abbassata.
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