Quanto a lungo pagheremo per le politiche restrittive della Bce? Tassi d’interesse più alti e crescita meno forte oggi significano meno investimento (pubblico e privato) e quindi un minore stock di capitale domani. Questo rende difficile la transizione ecologica e la ricomposizione settoriale della produzione
La settimana scorsa la Bce ha aumentato ancora i tassi di interesse portandoli al 4 per cento, il massimo storico, mentre riduceva le previsioni di crescita per l’Eurozona.
Il rallentamento dell’economia è una sorta di “missione compiuta” per la Bce, che cerca di riportare sotto controllo l’inflazione raffreddando consumi e investimenti. L’aumento dei tassi di interesse, infatti, rende più costoso il prendere a prestito e quindi riduce la liquidità a disposizione dell’economia e la domanda di beni e servizi.
Capacità produttiva futura
Molti commentatori, come è logico, si concentrano sulle difficoltà che nei prossimi mesi, a causa della stretta monetaria, aspettano le economie della zona euro. Ma pochi sottolineano i costi, ben maggiori, che rischiano di materializzarsi nel lungo periodo. Per capire di cosa stiamo parlando occorre in primo luogo distinguere tra la spesa per consumi e quella per investimenti.
Entrambe, infatti, se si riducono a causa di tassi d’interesse più elevati, riducono la domanda di beni e servizi corrente, raffreddando l’economia. Ma mentre l’effetto di un calo dei consumi si ferma qui, la compressione dell’investimento ha un impatto anche nel lungo termine.
L’investimento infatti, contrariamente al consumo, non è solo domanda di beni e servizi, ma è anche costruzione della capacità produttiva futura. Minori investimenti oggi, insomma, significano minore capitale e minore capacità di produrre domani. Nella congiuntura attuale, questa riduzione in prospettiva dello stock di capitale è particolarmente grave. Vediamo perché.
In primo luogo, la riduzione dell’investimento avviene in un contesto di degradazione dello stock di capitale, pubblico e privato. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008 l’investimento è rimasto stagnante per più di un decennio, per ripartire con vigore solo dopo la pandemia. È fondamentale che questo rimbalzo non sia soffocato, per tre motivi. Il primo è che per ricostituire uno stock di capitale (ripetiamolo, pubblico e privato) eroso da anni di insufficiente accumulazione, serve un lungo periodo di investimenti sostenuti.
La seconda ragione è che aver recuperato i livelli di investimento precedenti la crisi finanziaria globale sarà certamente insufficiente se si considerano i bisogni legati alla transizione ecologica.
Non solo perché le nuove tecnologie hanno un’alta intensità di capitale; ma anche perché molte delle energie rinnovabili hanno altissimi costi di installazione e bassi costi di funzionamento, per cui i bisogni di finanziamento saranno particolarmente elevati nel breve-medio periodo.
Se tassi di interesse elevati dovessero finire per ostacolare la transizione verso le fonti di energia rinnovabile, il rischio sarebbe quello di un aumento dell’inflazione nel medio periodo a causa del mancato abbandono delle energie fossili.
Riorganizzazione impedita
Infine, ma non da ultimo, un investimento insufficiente potrebbe ostacolare la ricomposizione settoriale della produzione, particolarmente necessaria nella congiuntura attuale. La pandemia ha comportato un cambiamento delle abitudini di consumo. Insieme ai cambiamenti strutturali legati alle transizioni ecologica e digitale, questo implica un’importante riallocazione del capitale tra settori. Il capitale non è fungibile e il diverso peso che i settori prenderanno nell’economia di domani implicherà distruzione di capacità produttiva in alcuni di essi e costruzione in altri.
Per favorire questa ricomposizione, dunque, e per riassorbire i colli di bottiglia che hanno funestato le nostre economie dopo la pandemia, saranno necessari investimenti importanti.
Ora, la compressione della domanda aggregata indotta dall’aumento dei tassi renderà più difficile la necessaria riallocazione del capitale. Nel 2013 l’economista di Harvard Dani Rodrik criticò la scelta di imporre alla Grecia e agli altri paesi in crisi l’accoppiata austerità più riforme: in condizioni normali, sosteneva Rodrik, le riforme rendono più facile la distruzione di risorse in settori meno produttivi e la creazione in settori ad alto valore aggiunto.
In un contesto di crescita stagnante la domanda per i settori più dinamici potrebbe non essere sufficiente ad indurre le imprese a investire e assumere, per cui le risorse distrutte nei settori meno produttivi potrebbero non essere ricreate altrove e gli effetti positivi delle riforme sulla produttività potrebbero non materializzarsi. Rodrik concludeva che non si poteva imporre alla Grecia di procedere contemporaneamente con l’austerità e con le riforme.
Qui siamo in un caso simile: comprimendo la domanda globale in un momento in cui per motivi contingenti (la riorganizzazione post pandemica) e strutturali (la transizione ecologica) il bisogno per l’economia di riallocazioni settoriali è particolarmente acuto, le banche centrali rischiano di ostacolare le trasformazioni strutturali necessarie per una crescita robusta e sostenibile nel lungo periodo.
Non si tratta di considerazioni astratte. Alcuni lavori recenti, citati dal Financial Times, si sono concentrati proprio sulla relazione tra aumento dei tassi di interesse, investimenti e capacità di crescita nel lungo periodo (che gli economisti chiamano crescita potenziale).
Due economisti della Federal Reserve di San Francisco hanno studiato decine di episodi di restrizione monetaria nei paesi avanzati, trovando un impatto negativo e significativo sulla crescita potenziale ancora dieci anni dopo l’aumento dei tassi. Un altro risultato interessante del loro studio è che l’effetto non è simmetrico: se la restrizione danneggia la crescita potenziale, politiche espansive non hanno effetti positivi.
Un altro lavoro, presentato al simposio annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole il mese scorso, mostra che l’aumento dei tassi delle banche centrali, riducendo la domanda aggregata, ha un impatto negativo sulla profittabilità degli investimenti; negli anni successivi, questo riduce significativamente la spesa per ricerca e sviluppo e l’investimento di lungo periodo (venture capital), elementi fondamentali per sostenere la crescita di lungo periodo.
Più inflazione domani?
Insomma, una restrizione monetaria eccessiva rischia non soltanto di rallentare la crescita nel breve periodo, ma anche di comprimere la capacità produttiva nel lungo periodo e di ostacolare la riorganizzazione settoriale. Meno offerta significa a sua volta un maggiore rischio di tensioni inflazionistiche, quando la domanda riprenderà e le imprese non saranno in grado di soddisfarla. Insomma, insistendo con una strategia restrittiva sempre meno giustificata, le banche centrali si stanno anche complicando la vita in futuro.
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