- Attirati dal prezzo dell’energia più basso e da una gigantesca offerta di aiuti pubblici, molti gruppi industriali spostano gli investimenti negli Stati Uniti. Tra gli apripista, i produttori di acciaio, di batterie e di pannelli solari, come l’Enel.
- Anche alcune aziende della farmaceutica e dell’aerospazio vogliono andarsene. Dicono che l'Ue «ha buone intenzioni» ma il suo quadro normativo è troppo restrittivo e complesso, «con molte più tasse, molte più barriere e molte più regole».
- Bruxelles dovrà ammorbidire i suoi dogmi, rinunciando alla difesa della concorrenza ad ogni costo e accettando più aiuti pubblici. Una svolta epocale. L’idea del fondo sovrano è buona ma richiede tempo.
Se fosse un film si intitolerebbe “2023 Fuga dall’Europa”. E sarebbe una pellicola horror, con protagonisti i manager delle grandi imprese pronti a scappare dal Vecchio continente. Come Peter Carlsson, amministratore delegato di Northvolt, azienda svedese impegnata nella produzione di batterie per auto elettriche: «Se costruissimo una gigafactory negli Stati Uniti potremmo ricevere fino a 800 milioni di euro di aiuti. Una cifra quattro volte superiore a quella offerta dal governo tedesco.
Senza contare che negli Usa il costo dell’energia è più basso». Non poteva essere più esplicito di così Carlsson, aggiungendo che la società potrebbe decidere di ritardare l’avvio dei lavori per la realizzazione di una fabbrica a Heide, nel nord della Germania, e di valutare l’ingresso nel mercato americano. Il manager scandinavo è in buona compagnia.
Dalle batterie a Airbus
Se il mercato unico avvantaggia i grandi
Thomas Schaefer, numero uno del marchio Volkswagen, ha spiegato qualche settimana fa che i prezzi dell'energia in Europa rendono difficile giustificare agli azionisti il motivo per cui la casa automobilistica dovrebbe stabilirvi una fabbrica di batterie: «Se si ha la possibilità di costruire un impianto in Europa, dove l'elettricità costa 15 centesimi per kilowattora, ma si può ottenere in Cina o in America per 2-3 centesimi, non siamo nella posizione di dire, in base alla normativa sulle società per azioni, che lo faremo qui per solidarietà».
Ma la tentazione di lasciare l’Europa non riguarda solo il settore delle batterie, cruciale per la transizione ecologica. L'amministratore delegato di Airbus, Guillaume Faury, ha avvertito che i fornitori europei del gruppo aerospaziale stanno iniziando a trasferirsi negli Stati Uniti per sfuggire all'impennata dei costi energetici e ha esortato i governi a fornire agevolazioni fiscali per fermare questo flusso. Faury ha affermato che la legge statunitense è «molto favorevole» per i fornitori del settore aeronautico, attirati dai sussidi per i programmi energetici a zero emissioni di carbonio, tra cui l'idrogeno verde. Secondo il top manager di Airbus, l'Ue «ha buone intenzioni» ma il suo quadro normativo è troppo restrittivo e complesso, «con molte più tasse, molte più barriere e molte più regole».
La svolta della politica industriale
La transizione ecologica è una guerra Usa – Ue
L’Europa sta attraversando una crisi epocale che la costringerà a cambiare per sempre: dovrà attenuare il dogma della difesa della concorrenza e del consumatore e promuovere la nascita di campioni continentali; dovrà darsi una politica industriale comune; dovrà darsi regole più semplici; e dovrà essere ancora più unita. Ma il rischio di perdere progressivamente rilevanza a livello globale è altissimo. Come ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, «quando due superpotenze sovvenzionano pesantemente alcuni settori, si può decidere di non fare nulla, di rispettare le regole e la purezza della dottrina del libero mercato, ma alla fine non rimarrà molto in Europa».
«Errori madornali»
L’industria dell’Unione si trova infatti in una situazione drammatica: martoriata per due anni dalla pandemia e dalla scarsità di materie prime, ora è alle prese con una crisi energetica gravissima e con la concorrenza di due giganti, gli Stati Uniti e la Cina, che a colpi di sussidi stanno attirando le imprese della green economy e quelle più energivore. Il tutto nel pieno di una difficile transizione ecologica.
A prendere in contropiede l’Europa, è stato soprattutto l'Inflation reduction act (Ira) varato dall’amministrazione americana che mette sul piatto aiuti per 370 miliardi di dollari in dieci anni, con un effetto traino valutato in circa 1.700 miliardi.
L’obiettivo di Joe Biden è trasformare gli Stati Uniti nel maggiore produttore mondiale di fonti energetiche green: pannelli solari, batterie, stazioni di ricarica, lavorazione delle terre rare. A questa massa di sussidi si aggiunge il costo dell’energia più basso. Va inoltre ricordato che in luglio il Congresso aveva approvato il Chips for America Act per rafforzare la produzione locale di semiconduttori.
Il risultato è che grandi gruppi come l’Enel stanno decidendo di investire oltre l’Atlantico: la società italiana ha annunciato l’intenzione di costruire un impianto di produzione di celle e moduli fotovoltaici bifacciali negli Stati Uniti, simile a quello di Catania, e sta valutando come possibile posizione la zona dei Grandi Laghi e il Texas. Alle imprese del settore green si aggiungono le energivore: aziende europee che producono acciaio, fertilizzanti e altre materie prime stanno investendo negli Stati Uniti alla ricerca di fonti più economiche.
Ahmed El-Hoshy, amministratore delegato dell'azienda chimica Oci con sede ad Amsterdam, ha annunciato l'espansione di un impianto di ammoniaca in Texas. L’ArcelorMittal (acciaio) ha dichiarato di voler tagliare la produzione di due impianti tedeschi mentre ha registrato ottimi risultati in uno stabilimento in Texas. Anche la francese Safran (freni al carbonio) e la spagnola Iberdrola (energia) stanno facendo rotta negli Stati Uniti.
I tagli alla spesa sanitaria mettono nel frattempo in difficoltà le imprese farmaceutiche: Bayer sta spostando il focus delle sue attività farmaceutiche verso l’America e lontano dall'Europa e dal Regno Unito, dove i governi stanno commettendo «grandi errori» nella gestione dei bilanci sanitari. Stefan Oelrich, responsabile delle attività farmaceutiche del conglomerato tedesco, ha dichiarato al Financial Times che l'Europa sta diventando «ostile all'innovazione» e «sta commettendo errori davvero madornali».
Le tre mosse dell’Europa
L’Ue rilancia la sovranità e rischia il sovranismo degli aiuti
Mentre gli Stati Uniti diventano il paradiso delle imprese a colpi di sussidi e la Cina fa man bassa di materie rare, Bruxelles risponde con tre mosse: la prima è modificare la normativa sugli aiuti di Stato, proposta che la vicepresidente della Commissione, Margrethe Vestager, ha illustrato in una lettera inviata ai ministri delle Finanze degli Stati membri venerdì 13 gennaio; la seconda è il Net Zero Industry Act, un set di regole che hanno «l'obiettivo di concentrare gli investimenti su progetti strategici lungo l'intera supply chain» dell’energia pulita, come ha spiegato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen suo “special address” al Forum di Davos; ma è la terza mossa quella più interessante: per evitare che gli Stati più ricchi possano permettersi di versare più sussidi rispetto alle nazioni meno ricche, l’Europa dovrebbe dotarsi di un fondo sovrano, una specie di gigantesca Cassa depositi e prestiti che investa nelle imprese europee, con l’obiettivo di portare a termine la transizione verde e quella digitale. Il problema è che questi progetti richiedono tempo. E il mondo corre molto più veloce.
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