- Sia la Fed che la Bce, nelle loro decisioni di mercoledì e giovedì, hanno preso atto delle incertezze dell’economia ma non hanno contribuito a ridurle con le loro dichiarazioni, salvo per l’annuncio credibile che non smetteranno di darsi da fare per vincere l’inflazione.
- Crea confusione il conflitto fra l’approccio dei preannunci delle decisioni future, usati per influenzare le aspettative, e quello della “dipendenza dagli ultimi dati”, con decisioni non preannunciabili, prese di riunione in riunione.
- Per battere le aspettative di inflazione occorre esser chiari almeno nel ribadire che i tassi raggiunti in Usa non verranno riabbassati troppo presto e quelli sull’euro torneranno più svelto superiori all’inflazione, e lì rimarranno.
Uno sbaglio di politica monetaria avvolto in un errore di comunicazione»: è il giudizio di una persona, una che conosce bene il mestiere dei banchieri centrali, sulla decisione di mercoledì 14 della Fed, la banca centrale statunitense.
Decisione di fare una pausa nella serie di rialzi dei tassi di interesse, che non ha sostato dal marzo dell’anno scorso facendoli aumentare di ben 5 punti percentuali.
Annunci contraddittori
Il presidente Jerome Powell non ha voluto essere fino in fondo «dipendente dagli ultimi dati» che, secondo alcuni, segnalano una resistenza dell’inflazione a scendere abbastanza svelta e un più sostenuto andamento della congiuntura. Da questo punto di vista sarebbe stato meglio proseguire i rialzi dei tassi. Ma Powell aveva lasciato prevedere una sosta nella stretta monetaria, fin da alcune settimane fa, quando c’era più ottimismo sull’inflazione e meno sulla crescita, e non ha voluto smentirsi. D’altra parte ha cercato di soddisfare chi voleva alzarli ancora di mezzo punto ipotizzando di poterlo fare entro fine anno. Confusione e contraddizione.
E la Bce? ieri, come si attendeva, ha deciso un altro aumento di 0,25 per cento dei tassi di interesse che controlla direttamente. Anche la Banca centrale europea ha ribadito con solennità che «continueremo a seguire un approccio dipendente dai dati». Ma Christine Lagarde non ha esitato, nel rispondere a una domanda nella conferenza stampa, a promettere con assertività nuovi rialzi, fin dalla prossima riunione di fine luglio. Ma sono gli ultimi dati che contano o le promesse di sei settimane prima?
Entrambe le banche centrali hanno preso atto delle molteplici incertezze dell’economia, ma non hanno contribuito a ridurle con le loro dichiarazioni, salvo per l’annuncio credibile che non smetteranno di darsi da fare per vincere l’inflazione. D’altra parte, durante l’acrobazia per aumentare i tassi di 4-5 punti e ridurre l’inflazione di quasi il doppio, non può non venire al pettine il conflitto fra l’approccio dei preannunci delle decisioni future, usati in passato a lungo per influenzare le aspettative dei mercati, e quello della “dipendenza dagli ultimi dati”, con decisioni non preannunciabili, prese di riunione in riunione.
Regole monetarie
Sono fra coloro che amano la politica monetaria prevedibile e guidata da strategie trasparenti, da annunci che si possano smentire se succedono forti imprevisti ma rientrando poi nella normale prevedibilità.
Politica guidata da regole che “leghino le mani” alle autorità monetarie in modo da impedir loro interventi esagerati e bruschi come quelli dell’ultimo ventennio. Sulle regole necessarie ho fatto qualche proposta nel libro che ho appena pubblicato (Oltre le colonne d’Ercole: ripensare le regole della politica monetaria, Egea).
Finora, come negli ultimi 12-16 mesi, anche in seguito alle passate esagerazioni con i tassi e la liquidità, il corso delle cose è troppo complesso e incerto per poter tornare a seguir regole chiare. Sarebbe meglio non contraddirsi troppo, ma un certo grado di improvvisazione è inevitabile.
I rialzi dei tassi impattano sulle decisioni dei consumatori e degli investitori con ritardi lunghi e incerti, tanto più incerti, come ha spiegato Christine Lagarde ieri, quanto più alta e incerta è l’inflazione. Inoltre, l’inflazione, quando è alta e la si forza al ribasso, può esser molto diversa fra diversi gruppi di beni ed è complesso interpretarne l’evoluzione.
Infine, la stretta dei tassi e della liquidità può avere effetti molto difficili da prevedere sugli equilibri di bilancio delle banche e delle imprese e quindi sulla stabilità finanziaria. Se la finanza si mette a tremare, la banca centrale è tenuta a far da prestatore di ultima istanza e quindi a quasi dimenticare per qualche mese il problema dell’inflazione.
Così è successo alla Fed quando, nello scorso marzo, ha dovuto far fronte ai guai di alcune banche, come la Silicon Valley Bank: è stata costretta a reintrodurre subito la liquidità che aveva rastrellato con la stretta monetaria fin dall’estate scorsa; solo nelle ultime settimane a ricominciato a stringere.
Lasciamo dunque che la professionalità tecnica che non manca alle banche centrali finisca l’acrobazia: una volta consolidato l’arresto degli eccessi di inflazione, allora sarà il momento di reintrodurre regole, strategie esplicite e maggior prevedibilità delle manovre monetarie.
È sperabile che il momento si approssimi svelto; l’accusa a Powell di sbagliare a decidere e a comunicare sembra richiedere di stabilir presto che quel momento è arrivato; i mercati cominciano a non poter fare a meno di un orientamento più duraturo e coerente. Il problema è capire se il freno all’inflazione è sufficiente, se scenderà ancora mantenendo i tassi di interesse fermi dove sono ora e continuando a riassorbire la liquidità in eccesso. Ma capirlo non è facile.
Come va l’inflazione?
Misurata prendendo il livello dei prezzi di ogni mese e rapportandolo a quello di dodici mesi prima, l’inflazione è calata con regolarità, in Usa dall’estate scorsa, quando superava il 9 per cento (ora è al 4), nell’Eurozona dall’autunno, quando superava il 10 per cento (ora è al 6 per cento).
Se invece cerchiamo di misurare la spinta inflattiva durante ogni mese, si vede che i prezzi hanno rallentato molto nella seconda parte dell’anno scorso: negli Usa fin dalla primavera, da noi solo dopo settembre. Ma all’inizio di quest’anno l’inflazione ha riaccelerato su entrambe le sponde dell’Atlantico, anche se ultimamente nell’eurozona ci sono segni di netto calo.
Guardando all’aumento dei prezzi entro ogni mese, smussandone un poco i salti meccanici, si vede anche un’altra cosa: che negli ultimi 30 mesi, sia in Usa che da noi, l’inflazione mensile è stata a lungo superiore, a volte molto, allo 0,4-0,5 per cento. Poiché siamo abituati a tassi di inflazione annuali, è bene tener presente il significato di questa intensità mensile del fenomeno: lo 0,5 per cento equivale a più del 6 per cento annuo, lo 0,8 a più del 10.
Dunque l’inflazione è stata ed è ancora alta negli Usa, nell’Eurozona è stata alta almeno fino al mese scorso e la Bce la vede nuovamente in crescita fin dalle prossime settimane. Soprattutto, l’inflazione è un incendio vasto e vivace, generatosi dai fiammiferi accesi dalla pandemia e dalla guerra ucraina ma alimentato generosamente dalla sovrabbondante liquidità versata nelle economie dalle politiche monetarie che sono state sostanzialmente espansive per almeno una dozzina d’anni.
Se dobbiamo tornare, senza troppo ritardo ma in modo non passeggero, a un aumento annuo dei prezzi –per non esser troppo ambiziosi – fra il 3 e il 4 per cento, vogliamo confermare di desiderare davvero la “stabilità monetaria”, occorre esser chiari almeno nel ribadire che i tassi raggiunti in Usa non verranno riabbassati troppo presto e i tassi a breve sull’euro torneranno presto superiori all’inflazione e lì rimarranno. È augurabile che i banchieri centrali ci assicurino senza annunci pasticciati questi chiarimenti.
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