La vice dio Biden si è scagliata contro le aziende che non «giocano secondo le regole» nell’aumentare il costo dei prodotti. Nel 2021 la fiamma inflazionistica ci ha colti impreparati e per i dem l’economia è un nodo elettorale importante
Dopo la Convention di Chicago Kamala Harris è ufficialmente la candidata alla presidenza del partito democratico.
Harris, poco conosciuta dagli elettori, è stata proiettata sul davanti della scena dalla rinuncia di Joe Biden e ha quindi dovuto inventare una campagna elettorale dal nulla. Non è sorprendente, in queste condizioni, che al momento Harris si stia concentrando sul messaggio generale più che su specifiche proposte.
Per questo ha destato scalpore, qualche giorno fa, la proposta di misure per mettere fine ai comportamenti speculativi sui prezzi di alcuni attori della filiera alimentare.
In un comizio in North Carolina, Harris si è scagliata contro le aziende che non «giocano secondo le regole» aumentando eccessivamente i prezzi, per poi sottolineare che la concorrenza nel settore è essenziale per ridurre i prezzi dei generi alimentari.
In effetti, quello dell’inflazione è un tema dolente per l’amministrazione Biden-Harris, su cui i Repubblicani battono molto. L’inflazione recente non è certo un fenomeno solo americano e, come i lettori del Diario Europeo sanno, è stata principalmente alimentata dalla disarticolazione dell’economia e delle catene di approvvigionamento causata dal Covid.
Ciononostante, la narrazione prevalente negli Stati Uniti, che ha fatto breccia negli elettori, è che l’inflazione sia stata causata dai programmi di spesa del presidente Biden.
Una narrazione ancora più lontana dalla realtà se si considera che di fatto gli Stati Uniti sono stati il paese avanzato dove i salari sono più cresciuti e dove quindi il potere d’acquisto è calato meno.
Fatto sta che i prezzi del carrello della spesa dal gennaio 2020 sono aumentati del 25 per cento, con picchi a oltre il 50 per cento per alcuni beni essenziali come il pane, mentre allo stesso tempo, alcune aziende del settore stanno godendo di profitti record. È quindi difficile per l’amministrazione in carica dissipare la sensazione degli elettori che l’inflazione sia il problema principale.
Lo spauracchio
I controlli di prezzo possono prendere tante forme: dal prezzo amministrato, all’imposizione di un tetto ai prezzi di mercato, o ancora ai sussidi ai produttori a carico del bilancio pubblico, fino agli interventi di compravendita da parte delle autorità pubbliche per influenzare il prezzo di mercato.
Harris è volutamente rimasta vaga su come contrasterebbe i comportamenti speculativi, ed è lecito attendersi delle misure abbastanza blande, che sanzionino solo i comportamenti più platealmente scorretti da parte dei fornitori di beni alimentari.
Ciononostante, si è assistito a una levata di scudi. Lasciando perdere la propaganda di chi ha definito Harris comunista, anche molti economisti si sono affrettati a dire che la proposta non servirebbe a nulla.
Quello del controllo dei prezzi, infatti, rimane un tabù per la maggioranza degli economisti, anche di molti con idee progressiste e keynesiane.
La ragione è abbastanza semplice: tutti gli economisti vengono formati con un modello standard, nel quale i mercati allocano le risorse in maniera efficiente (“ottimale”), proprio attraverso il meccanismo dei prezzi.
Nel modello, oltre a equilibrare la domanda e l’offerta, i prezzi, agiscono da segnale, rivelando le preferenze: se io sono disposto a pagare di più di un mio amico per un biglietto di un concerto degli U2, è giusto che il prezzo salga e che io abbia il biglietto al posto del mio amico, a cui il gruppo piace evidentemente di meno.
Alcuni lettori ricorderanno che proprio questo argomento fu avanzato da chi criticava nel 2021 i controlli di prezzo sulle mascherine. Si sentì dire, all’epoca, che lasciar liberi i prezzi di aumentare avrebbe consentito di acquistare le mascherine, all’epoca rare, a chi era disposto a spendere di più perché ne aveva più bisogno.
I mercati non efficienti
Insomma, nel modello che tutti gli economisti imparano al primo anno di università, i prezzi sono il pilastro su cui si basa il meccanismo efficiente di allocazione delle risorse. Qualunque ostacolo al loro libero variare, quindi, impedirebbe ai mercati di funzionare correttamente.
Ad esempio, il salario minimo, che farebbe aumentare la disoccupazione; o appunto i controlli di prezzo, che impedirebbero un aumento della produzione e causerebbero penurie.
Il problema è che la realtà non funziona come il modello: gli ostacoli all’allocazione ottimale sono moltissimi e i prezzi, invece di segnalare scarsità e preferenze, sono spesso uno strumento per accumulare rendite.
Ad esempio, potrebbe succedere che il mio amico ami gli U2 più di me ma che non abbia i soldi per comprare il biglietto. Oppure, si pensi ancora al caso delle mascherine, la produzione potrebbe essere limitata da colli di bottiglia e non potrebbe aumentare in seguito all’aumento dei prezzi.
Ancora, ed è il caso fustigato da Harris nel suo comizio, può esserci un potere di mercato da parte di fornitori che sono in grado di aumentare i prezzi ed appropriarsi di rendite, danneggiando il consumatore.
Insomma, il modello che ci viene insegnato all’università è solo un caso limite, un benchmark, che in nessun caso dovrebbe essere applicato acriticamente.
Lo sapevano bene i padri nobili della teoria, come Paul Samuelson e Irving Fisher, che nell’immediato secondo dopoguerra si pronunciarono contro l’abolizione prematura dei controlli sui prezzi introdotti durante la guerra, argomentando che questo avrebbe portato a speculazione e accaparramento di rendite di posizione da parte dei fornitori di beni scarsi.
Peraltro, anche se fanno gridare al socialismo reale, i controlli di prezzo sono una pratica assai più diffusa di quanto non si creda. A titolo d’esempio, i dati Eurostat ci dicono che il 7,5 per cento dei prezzi in Italia (ma il 13 per cento nell’Eurozona e il 17 per cento in Germania) sono in qualche modo amministrati.
Prepararsi alla crisi
Ma per quale motivo dovremmo preoccuparci dei controlli dei prezzi, proprio nel momento in cui le banche centrali si apprestano a dichiarare vinta la battaglia contro l’inflazione? La ragione è che nel 2021 la fiammata inflazionistica ci ha colti impreparati.
L’economista tedesca Isabella Weber notava recentemente come in passato le politiche di controllo dei prezzi più efficaci siano state quelle tempestive, che andavano a spegnere il focolaio dell’incendio in maniera mirata prima che il fuoco si propagasse.
Se nel 2021 avessimo avuto le istituzioni capaci di monitorare le determinanti dei prezzi nei vari settori e attuare per tempo politiche per stabilizzare i prezzi più significativi dal punto di vista sistemico (l’energia, per esempio), la crisi inflazionistica avrebbe potuto essere gestita meglio, ad esempio evitando di ricorrere solo alla restrizione monetaria.
Insomma, fa bene Kamala Harris a porsi il tema di come evitare abusi di posizione dominante e comportamenti opportunistici in caso di shock sistemici. E faremmo bene anche noi in Europa a prepararci ad affrontare le crisi future con una pluralità di strumenti, tra cui hanno pieno diritto di cittadinanza anche politiche di controllo dei prezzi.
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