Donald Trump ha fatto una sintesi elettorale brutale ed efficace della catastrofica giornata finanziaria: “Trump Cash vs. Kamala Crash!”.

Come spesso capita, l’ex presidente ha fiutato rapidamente la linea di attacco dopo che il Dow Jones è crollato di oltre 1000 punti, facendo seguito al tracollo della borsa giapponese che ha trascinato giù tutte le altre, reazione a catena i cui primi motori sono i pessimi dati sull’occupazione americana pubblicati venerdì scorso, le decisioni dubbie della Fed e altri indicatori negativi che sono presagi di recessione negli Stati Uniti. 

Per i repubblicani quest’aria di crisi è un dono inaspettato. Kamala Harris non ha nemmeno finito il giro trionfale in cui anche chi lanciava strali contro la vicepresidente inadeguata ora lancia petali di rosa alla candidata che può fermare la barbarie trumpiana, ed ecco che le piomba addosso un “crash” che può fare molto male. Non è un inciampo qualunque.

Trump si sta giocando gran parte della corsa elettorale sulle promesse economiche. Il candidato vicepresidente, l’“hillbilly” J.D. Vance, fa comizi da profeta del protezionismo nazionalista e accarezza i dimenticati dell’America affamati da decenni di desertificazione industriale e delocalizzazione. Promette il ritorno di posti di lavoro nella Rust Belt e innalzamenti del salario minimo, facendosi beffe di chi dice che aumenterà l’inflazione. È questo il “Trump Cash” che il ticket oppone al “Kamala Crash”.

Il problema è che anche l’Amministrazione Biden punta moltissimo sullo stato di salute dell’economia. Fra l’insolubile guerra in Ucraina e il conflitto a Gaza in rapido ed inquietante allargamento sul fronte iraniano, non è dalle parti della politica estera che Harris può sperare di trovare messaggi convincenti. E comunque i frustrati elettori di Michigan e Pennsylvania che decidono le elezioni raramente guardano al di là dell’orizzonte delle loro tasche per scegliere chi votare.

Anche le battaglie sui diritti sembrano avere una capacità limitata di coinvolgere il bacino degli indecisi, che in parte è fatto da persone che tendono a sinistra sulle questioni economiche ma hanno simpatie conservatrici sui temi sociali ed etici. Rimane quindi soltanto la crescita, e infatti la campagna del Biden pre-dibattito era tutta incentrata sui successi della Bidenomics

Giusto un mese fa la Casa Bianca ha pubblicato una nota che dopo la giornata di ieri sembra provenire da un’altra epoca. Iniziava così: «Con il report di oggi che dice che sono stati creati 206mila posti di lavoro, la cifra record di 15,7 milioni di posti di lavoro è stata creata durante la mia amministrazione. Abbiamo ancora lavoro da fare, ma i salari stanno crescendo più velocemente dei prezzi e sempre più americani accedono al mondo del lavoro, con la più alta percentuale di americani in età lavorativa entrata nella forza lavoro da oltre vent’anni».

Un mese più tardi lo stesso report ha segnato un brusco rallentamento, il tasso di disoccupazione ha toccato il punto più alto negli ultimi tre anni, i mercati sono crollati, si è consolidata l’idea che la Fed abbia aspettato troppo per tagliare i tassi e lo spettro della recessione si aggira per il paese. 

Le ondate di panico finanziario vanno e vengono, non bisogna leggere troppo in una giornata o una congiuntura nera. Ma allo stesso modo funzionano le emozioni degli elettori durante la campagna. Anche le più solide conquiste della Bidenomics possono svanire nella percezione di un elettorato che cerca rassicurazioni.

Il presidente – e in questo caso la sua vice che ne ha preso il testimone elettorale – paga alle urne anche le colpe che non ha.

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