Spiazzato dalla svolta di Salvini in Europa è stato costretto alla retromarcia. Ora la maggioranza lo attacca per ottenere la proroga delle agevolazioni edilizie
Giancarlo Giorgetti è il ministro dei mal di pancia. Già a settembre, il più leghista dei draghiani (oppure il più draghiano dei leghisti, fate voi) confessò pubblicamente il suo malessere per via del Superbonus, una miccia accesa sotto i conti già malandati dello Stato.
E ora che siamo sotto Natale, il menù è diventato ancora più indigesto. Nel giro di pochi giorni, Giorgetti ha dovuto trangugiare un boccone amaro dopo l’altro. Prima il Patto di stabilità firmato obtorto collo. Poi la bocciatura del Mes, che mette Roma in rotta di collisione col resto d’Europa.
Spiazzato
Di fatto, la maggioranza di governo ha scartato bruscamente a destra, tra slogan sovranisti e ardite capriole contabili. Tra tutte, va segnalata quella di Giovanbattista Fazzolari.
Sfoderando una versione fatta in casa (sua) dell’aritmetica, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, consigliere in capo di Giorgia Meloni giovedì sera ha spiegato in tv che grazie al nuovo Patto, a regime l’Italia avrà 35 miliardi in più da spendere. Giorgetti invece, che i conti pubblici li frequenta da decenni (nel 2001 era già presidente della commissione Bilancio della Camera), si è ritrovato d’improvviso spiazzato.
E solo. Peggio: “Sbeffeggiato dal suo leader e dal suo partito”, ha riassunto alla Camera il deputato Pd, Enzo Amendola chiedendo al ministro di «trarre le conseguenze» di quanto accaduto. Dimissioni? «I consigli dell’opposizione sono sempre utili, però permettetemi che poi decido io», ha risposto Giorgetti, che, interpellato dai cronisti sulla clamorosa bocciatura parlamentare del Mes, se l’è cavata svicolando. «L’Europa non ha sempre ragione», ha detto.
Parole che suonano come l’estrema difesa di un pugile che forse non vede l’ora di scendere dal ring. E pensare che solo un mese fa il match con l’Europa sembrava avviato verso una soluzione molto diversa.
Le manovre di Roma puntavano a portare la partita ai supplementari. Meglio nessun accordo, con la sospensione del Patto fino a dopo le elezioni europee di primavera, piuttosto che un’intesa che avrebbe costretto il governo meloniano a fare i conti con la realtà.
Quella di un’Europa in cui il fronte dei paesi frugali del Nord è ancora in grado di imporre la rotta al resto del gruppo. Il gioco di sponda con la Francia, pure afflitta da debito e deficit ben oltre i livelli di guardia, doveva servire a superare il muro di Berlino.
Alla fine, però Parigi ha tagliato corto e ha trovato l’intesa con il partner più forte, quello che conta davvero. Una mossa che ha colto di sorpresa Giorgetti, il quale, ospite di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, ancora venerdì 15 dicembre non aveva esitato a definire «scarse» le probabilità che l’intesa sul patto venisse raggiunto a breve.
Il bluff di Meloni
È andata diversamente, come sappiamo. Il veto più volte minacciato nelle settimane precedenti alla prova dei fatti si è rivelato un bluff e il ministro leghista non ha potuto fare altro che adeguarsi alla linea concordata dagli altri partner.
A quel punto forse anche lui ha capito che sul Mes si sarebbe giocata una partita che nulla aveva a che fare con il merito della questione. Una sfida tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni per occupare lo spazio politico dei sedicenti difensori dell’interesse nazionale contro gli agguati dell’Europa dei poteri forti.
La musica nuova, dai toni così diversi da quelli pacati esibiti per mesi dalla premier, ha risvegliato anche i leghisti no euro, riemersi dalle catacombe in cui li aveva relegati la svolta governista del partito.
È tornato in prima linea anche Claudio Borghi, da giorni felicissimo di vedersi dipinto dai giornali come l’astuto tessitore della nuova trama sovranista.
Da qui alle elezioni europee la strada è lunga e la grancassa della rumorosa pattuglia no euro torna utile a Salvini per mobilitare una base delusa e sfiduciata, gente che non si rassegna fare da semplice socio di minoranza del governo. Giorgetti, che ieri pomeriggio è volato a Tripoli in visita al contingente della Guardia di Finanza, incassa i colpi e fa sapere che lui, da ministro, il Mes lo avrebbe approvato, ma per «come si è sviluppato il dibattito negli ultimi giorni non c’era aria per l’approvazione».
E questo, ha concluso, «per motivazioni non soltanto economiche». Il riferimento al cambio di rotta del suo partito è evidente, ma il ministro ancora una volta china la testa, non affonda il colpo e volta pagina. O almeno ci prova. La manovra è andata in porto al Senato. Manca l’ultima tappa, l’approvazione della Camera.
Sulla volata finale incombe ancora l’incubo del Superbonus. I conti più aggiornati spostano l’asticella degli oneri a carico dello Stato verso i 60 miliardi per il solo 2023, quasi 20 miliardi in più di quanto si pensava solo tre mesi fa. Tutto questo mentre buona parte della maggioranza di governo spinge per una proroga che darebbe una nuova spallata al bilancio. Giorgetti resiste. Due settimane fa paragonò il Superbonus a un materiale radioattivo per i conti pubblici. Di Mes in peggio.
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