La fobia nazionalista e l’avversione ai fondi stranieri stanno incidendo sulla gestione delle molte situazioni aziendali problematiche che si trascinando da tempo: dalle barricate contro un ingresso dall’estero per Monte dei Paschi di Siena al caso delle torri di Tim e della rete unica. Il collocamento di Poste, i conti della Rai, la gestione di Ita, il miraggio Ilva
Ci sono tante situazioni aziendali problematiche che si trascinano da tempo, ma che il governo Meloni rischia solo di aggravare. La crisi del Monte dei Paschi risale a 15 anni fa, ma la banca è ora finalmente risanata. Gli accordi con l’Europa impongono al Governo di uscire dal suo capitale. Non dovrebbe essere un problema per il Tesoro vendere il suo 27 per cento: Mps vale infatti il 60 per cento del patrimonio, a forte sconto rispetto alla media delle banche europee per via di una redditività inferiore, spiegata però da un capitale in eccesso rispetto alla media. Molte banche potrebbero dunque avere interesse a rilevare la quota del Tesoro (senza Opa), visto lo sconto a cui quota Mps, per poi distribuire il suo capitale in eccesso.
Ma invece di un’asta competitiva aperta anche agli stranieri, il Governo temporeggia perché si discute se sia meglio l’azionariato popolare o promuovere un “terzo polo” con un'altra banca, rigorosamente italiana, purché considerata “affine” alle forze politiche al Governo.
Trovo quindi ridicolo che il Primo Ministro plauda all’acquisto da parte di UniCredit della maggiore banca tedesca, stigmatizzando l’opposizione di quel Governo, ma poi salga sulle barricate alla sola idea che qualche straniero possa prendersi Mps.
Stessa fobia nazionalista nel caso del collocamento di Poste Italiane. Il governo deve vendere per far cassa: Poste è redditizia e il collocamento in Borsa facile da realizzarsi. Poiché lo Stato detiene il 64 per cento del capitale, di cui il 35 tramite CDP, il 25 gennaio scorso il Consiglio dei Ministri aveva decretato la vendita del 29 per cento detenuto direttamente.
Ma non succede nulla fino al 17 settembre quando il medesimo Consiglio dei Ministri cambia idea e decide di vendere solo il 14 per cento. Forse al Governo si sono accorti che per cedere il 29 erano indispensabili gli investitori istituzionali stranieri. Non sia mai!
Le azioni delle Poste devono andare prevalentemente ai risparmiatori italiani e ai lavoratori delle Poste: braccia e soldi italiani. Roba da MinCulPop. Così ridimensionata, l’offerta doveva partire il 21 ottobre scorso, ma pochi giorni prima è stata bloccata: forse il Governo non si è reso conto che Poste capitalizza 17 miliardi e non si può pretendere che risparmiatori e dipendenti di Poste facciano la parte del leone in un collocamento da 2,4 miliardi.
La rete e Tim
L’avversione ai fondi stranieri è incomprensibile visto che lo Stato controlla assieme a loro la gran parte delle società a partecipazione pubblica: CDP detiene il 45 per cento di Autostrade per l’Italia, con il 5 dei cinesi della Via della Seta, il 7 dei tedeschi di Allianz, e il 43 diviso tra gli americani di Blackstone e gli australiani di Macquarie; e detiene circa il 29 mediamente in ciascuna tra Snam, Italgas e Terna, assieme ai cinesi di State Grid Europe.
Stato e CDP sono poi anche soci in FiberCop, OpenFiber e Sparkle, assieme ai fondi KKR, Macquarie, e Asterion, con l’idea di costruire la società unica della rete. Un progetto di cui si parla da vent’anni, la cui realizzazione doveva essere il fiore all’occhiello del Governo Meloni; ma che si sta rivelando un disastro. La cessione della rete aveva anche lo scopo di sgravare Tim da un debito insostenibile. Tim ha ceduto la rete ma il debito rimane eccessivo visto che gli analisti prevedono che nel 2025 gli interessi assorbiranno quasi il 60 per cento del risultato operativo.
La cessione ha ridotto gli oneri per Tim legati agli investimenti, che saranno quasi la metà rispetto alla media 2015-19; ma si avrà anche una riduzione simile del cash flow operativo, visto che con la rete se ne vanno pure i margini.
Per far cassa Tim ha inoltre ceduto le torri di trasmissione di InWit, e metà degli utili vengono ora dal Brasile: una volta ceduto, Tim rimarrà una società telefonica senza rete fissa e torri, in un paese che non cresce, dai margini compressi, destinata a fondersi con un concorrente per poter competere.
E la rete unica?
Se la cessione della rete non ha migliorato le prospettive di Tim, non ha migliorato neanche quelle della rete unica. Lo Stato è entrato con l’11 per cento in FiberCop, controllata KKR, che ha rilevato la rete di Tim; e assieme al fondo spagnolo Asterion compra sempre da Tim la società dei cavi Sparkle. Ciò nonostante, Cdp è rimasta in Tim col 10 per cento, ovvero lo Stato compra con una mano, e vende con l’altra. Non è finita.
Cdp è anche socio, assieme al fondo Macquarie, di OpenFiber, creata a suo tempo proprio per far concorrenza a Tim, ma ora promessa sposa a FiberCop per poter realizzare la rete unica. Il problema è che OpenFiber l’anno scorso ha perso 234 milioni su 582 di ricavi, ed è gravata da un debito di 5,5 miliardi pari a oltre 20 volte il margine operativo: qualsiasi altra società in queste condizioni molto probabilmente sarebbe già stata dichiarata insolvente.
OpenFiber è pure in ritardo nelle connessioni che deve fare per poter accedere ai finanziamenti del Pnrr, necessari perché le banche possano rifinanziare il suo debito. Ma in queste condizioni la fusione con FiberCop, strumentale alla creazione della società unica della rete, diventa una chimera. Conclusione: invece della rete unica, lo Stato è socio di ben tre società della rete assieme ad altrettanti fondi, FiberCop, OpenFiber e Sparkle; e rimane azionista di Tim, che però non è uscita dal guado. Evidentemente la confusione (e l’incompetenza) regna sovrana a Palazzo Chigi.
La Rai
La Rai è da sempre un braccio della politica: ma con il Governo Meloni abbiamo forse raggiunto un apice. La Rai è anche un’azienda e se i programmi sono scelti sulla base di amicizie e inclinazioni politiche di dirigenti, autori e conduttori, invece che dell’audience, la raccolta pubblicitaria langue e l’azienda va in crisi, visto che all’ultimo bilancio aveva quasi 600 milioni di debiti. Non ci sarebbe alcun problema secondo l’azienda, che sottolinea come la Rai abbia chiuso in pareggio il 2023 a livello consolidato.
Peccato che non sia vero: la capogruppo Rai aveva registrato infatti una perdita di 58 milioni; che diventava un pareggio grazie ai crediti di imposta per le perdite pregresse e al consolidamento degli 87 milioni di RaiWay, la società delle torri di trasmissione.
Ma da questa cifra andrebbero scomputati i circa 40 per cento di utili di pertinenza dei soci di minoranza di RaiWay: una volta che se ne tiene conto, la Rai era in perdita l’anno scorso per circa 30 milioni. Avanti di questo passo e Telemeloni rischia di diventare un’altra Alitalia.
Alitalia-Ita
A proposito della nostra compagnia di bandiera, lo Stato ha finalmente ceduto il controllo gestionale di Ita ai tedeschi di Lufthansa, che però hanno comprato solo il 40 per cento del capitale, segno che vogliono vedere gli utili prima di acquisire la maggioranza.
Non è detta quindi l’ultima parola perché, dopo gli entusiasmi generati dalla voglia di volare nel post-Covid, sono tornati i venti contrari per il trasporto aereo e Lufthansa ha visto quasi dimezzarsi il risultato operativo: così dai massimi del 2023 il titolo ha perso il 40 per cento. Bisognerà quindi sperare nella ripresa l’anno prossimo, e forse anche nel 2026, per poter vedere lo Stato finalmente in minoranza nel capitale di Ita.
Taranto
La parola fine rimane un miraggio per Ilva anche se sono passati “solo” 11 anni dal primo commissariamento. Inutile ripercorrere tutte le tappe di questa crisi se non ricordare che lo Stato ha stabilito un record con due amministrazioni straordinarie che perdurano in contemporanea, per gestire due fallimenti della stessa azienda; che però ha gli impianti ancora in affitto essendo sotto sequestro da parte della magistratura.
In questi anni sono stati avanzati molti progetti per la compatibilità ambientale, come la copertura dei parchi minerari, la chiusura degli alti forni, gli impianti funzionanti a pellet di ferro, l’arco elettrico, l’alimentazione con il gas, o con l’idrogeno verde, blu, o grigio: ma lo Stato non ha mai fatto una scelta di campo e soprattutto non ha mai avuto i soldi per implementarla, risanare l’azienda e rimetterla sul mercato. E questo Governo che vuol fare di Ilva? “A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, […] troncare, sopire”, come diceva il Padre Provinciale al Conte Zio nei Promessi Sposi.
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