- La regola d’oro dei venture capital è di andare dove c’è denaro in eccesso. Dove dirigersi oggi, a caccia di investitori con ricchi portafogli, se non nei paesi del Golfo?
- Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale dell'Arabia Saudita, ha chiuso il 2022 con profitti da record di 161 miliardi di dollari. Una montagna di petrodollari che cercano solo di essere investiti ma a patto di non fare domande sgradite su libertà di stampa e rispetto dei diritti umani.
- Così gli investitori della Silicon Valley hanno fiutato l’aria e stanno girando il medio oriente, secondo il Financial Times, con i piani di start up tecnologiche in valigetta, cercando di stringere accordi con i fondi sovrani degli emiri.
C’è una regola d’oro dei venture capital: se hai bisogno di denaro devi andare dove c’è ne è in eccesso. E dove dirigersi oggi, a caccia di investitori con ricchi portafogli, se non nei paesi del Golfo? Lì dove i prezzi del petrolio tornano a veleggiare verso i 100 dollari al barile dopo l’ultimo taglio della produzione decisa dall’Opec+ sotto la regia dell’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman in sintonia con la Russia di Vladimir Putin.
Un esempio per tutti: Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale dell’Arabia Saudita, ha chiuso il 2022 con profitti da record di 161 miliardi di dollari. Una montagna di petrodollari che cercano solo di essere investiti ma a patto di non fare domande sgradite su libertà di stampa e rispetto dei diritti umani.
Così gli investitori della Silicon Valley hanno fiutato l’aria e, secondo il Financial Times, stanno girando con i piani di start up tecnologiche in valigetta – soprattutto progetti legati all’intelligenza artificiale – in medio oriente, cercando di stringere accordi con i fondi sovrani degli emiri. In fondo, dopo il fallimento della banca californiana Silicon Valley bank, quella in corso è la peggiore crisi finanziaria per le società di venture capital da un decennio.
Allo stesso tempo i fondi sovrani arabi stano cercando di diversificare dal petrolio e puntano su aree tecnologiche. Così i migliori VC tecnologici come Andreessen Horowitz, Tiger Global e IVP, secondo quanto scritto dal quotidiano della City, hanno mandato i loro top manager in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar nelle ultime settimane a caccia di investitori ricchi ma esigenti.
Eppure qualche prudenza non guasterebbe. Un esempio? Ammar al Khudairy, presidente della Saudi National Bank, azionista al 10 per cento di Credit Suisse, senza volerlo, ha scatenato l’incendio che ha portato al crollo e poi all’acquisto della banca svizzera da parte di Ubs, oggi guidata dal ticinese Sergio Ermotti richiamato in tutta fretta dalla pensione per gestire l’emergenza.
Con poche parole del saudita ha avuto inizio la crisi: «I don't think they will need extra money». Cioè la banca saudita ha escluso ulteriori aumenti di capitale all’istituto elvetico. Dopo il crollo di Credit Suisse al Khoudairy si è dimesso dall’incarico per motivi personali ma ormai il danno era fatto.
Il fallimento di SVB
La decisione dei VCs di andare nel Golfo si inquadra nel dopo fallimento della Silicon Valley bank, la banca delle start up tecnologiche americane. Come ha scritto Andrew Ross Sorkin del New York Times, si è trattato di un bailout necessario, di un salvataggio della comunità dei venture capital, per ironia della sorte tutti libertari e anti statalisti, che erano la base dei depositanti della SVB.
Le autorità americane hanno tutelato anche i depositi non garantiti, cioè superiori a 250mila dollari, ai clienti dell’istituto californiano finito in default a seguito della corsa agli sportelli. Nelle pieghe del provvedimento americano c’è stata anche un’altra deroga: gli istituti di credito americani hanno potuto portare a garanzia, per eventuali prestiti di emergenza per la liquidità, come collaterali titoli del Tesoro a valore pieno anche se il valore di mercato è inferiore al valore nominale.
Ma tutto questo ha solo tamponato la situazione: i venture capital americani hanno dovuto andare dove non erano mai andati senza porsi troppe domande sul rispetto dei diritti umani da parte di quei governi. Tutto regolare o una mossa azzardata?
Analisti divisi
«Sembra uno sviluppo un po’ curioso ma in fondo non innaturale – spiega il banchiere Roberto Nicastro, ex deputy ceo di Unicredit e presidente delle Good Banks e che ha lanciato AideXa – i VC hanno bisogno di capitale paziente a medio lungo termine. Ma con la stretta monetaria sul mercato Usa oggi c’è meno liquidità anche tra i fondi pensione e quindi i VC cercano di allargare la platea di investitori tra i fondi sovrani del Golfo che spesso vedono sé stessi come bargain hunters, ovvero investitori in momenti in cui i prezzi sono bassi».
Più cauto sulla svolta è Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte, secondo cui «i venture capitalist stanno pagando lo scotto della lunga fase di una politica monetaria restrittiva e ora cercano riparo rivolgendosi ai ricchi paesi arabi che però geopoliticamente stanno convergendo verso la Cina». Il riferimento è alla recente clamorosa mediazione cinese che ha permesso la riapertura delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia saudita e ha messo all’angolo gli Stati Uniti.
«La flessione nel funding delle iniziative di venture capital nel 2022 è stata notevole: nell’ordine di un -50 per cento rispetto al 2021 – ricorda Edoardo Fusco Femiano, fondatore DLD Capital SCF – Chiaramente, le condizioni monetaria sono mutate radicalmente. Da qui la ricerca di capitale “paziente” da parte di grandi investitori istituzionali che hanno orizzonti d’investimento molto lunghi».
Ma c’è chi parla di bolla. «Crediamo che durante il periodo pandemico, grazie all’entusiasmo per le nuove tecnologie e alle strategie monetarie e fiscali espansive, ci sia stato un forte aumento della raccolta di fondi per i venture capital da investire nelle start up. Questa enorme liquidità immessa nel sistema ha inevitabilmente creato una bolla finanziaria, soprattutto negli Stati Uniti. Ora i venture capital devono cercare fondi in altri mercati più liquidi rispetto a quello statunitense, che risente della stretta della Fed», dice Filippo Diodovich, Senior Market Strategist di IG Italia. Una scommessa dai contorni finanziari e geopolitici importanti.
E in Europa le cose non vanno meglio. Secondo un rapporto delle principali business school europee tra cui la London Business School e il Politecnico di Milano, il 45 per cento degli investimenti europei in capitale di rischio (VC) fallisce o non garantisce rendimenti superiori a due volte l’investimento. Il rapporto che ha analizzato 885 investitori venture capital europei ha anche rilevato che il 28 per cento degli investimenti supera le aspettative e il 9 per cento ha guadagnato oltre 10 volte il capitale investito. Resta da capire se si tratta solo di una crisi temporanea, di una bolla o di qualcosa di più profondo e strutturale.
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